Giappone. Il fenomeno degli “johatsu”, gli “evaporati”

di C. Alessandro Mauceri

Ogni anno in Giappone decine di migliaia di persone scompaiono senza lasciare traccia. Spesso si tratta di “allontanamenti volontari”: sono gli johatsu, gli “evaporati”. È uno degli effetti collaterali del rigido sistema sociale e culturale giapponese che prevede per ogni uomo, donna e bambino un ruolo ben preciso nella società. E chi non ci riesce a rispettare le regole rigide che comporta viene trattato come un escluso e costretto a vivere nella vergogna del proprio fallimento. La causa scatenante può essere la perdita del posto di lavoro, un momento di difficoltà economica o il divorzio. Per non subire questa “vergogna” ogni anno decine di migliaia di persone decidono di scomparire e cambiare identità, senza lasciare traccia.
A rendere più difficile ritrovare queste persone il fatto che in questo Paese la legge garantisce la massima riservatezza dei dati personali (e finanziari): spesso per i parenti non è facile accedervi. A volte le stesse autorità incontrano difficoltà, a meno che non siano riconnessi alla violazione della legge. Questo fa sì che in Giappone scomparire e non essere più ritrovati è relativamente facile: basta cambiare nome e luogo di residenza.
A volte anche grazie all’aiuto di società create per questo scopo. Negli anni Novanta questo settore ebbe un vero e proprio boom: con l’aumento degli johatsu nacquero tantissime agenzie specializzate nel far “evaporare” queste persone, con alcune società che si occupavano anche di trasporti notturni per agevolare la sparizione.
Del fenomeno degli johatsu si parlò in un film del 1967, “A man vanishes”, diretto da Shohei Imamura. Il film racconta la storia di un uomo dileguatosi senza lasciare alcuna traccia e senza dire una parola né al padre né alla fidanzata.
Più di recente se ne è parlato anche in un libro scritto da Léna Mauger e Stéphane Remael, “The Vanished: The ‘Evaporated People’ of Japan in Stories and Photographs”. Un lavoro complesso che ha richiesto ben cinque anni.
Alla base di questo fenomeno c’è la paura di perdere l’onore, di deludere amici e parenti, di dover ammettere il proprio fallimentodi fronte alla società. Motivazioni che in molti Paesi occidentali non avrebbero conseguenze così rilevanti. Ma non in Giappone. Lì questi temi sono alla base delle regole della convivenza. E una persona è considerata tale solo all’interno di un contesto sociale e lavorativo, si pensi ad esempio ai karoshi, i suicidi generati dall’eccessivo sfinimento dettato da cause lavorative nel Paese del Sol Levante. Da un’inchiesta condotta su un campione di 10mila lavoratori giapponesi, è emerso che oltre il 20 per cento effettuava almeno ottanta ore di straordinario mensili e il 50 per cento aveva rinunciato alle ferie retribuite. Diffusa anche l’abitudine dei lavoratori di andare ad ubriacarsi con i colleghi al termine delle ore di lavoro.
In Giappone un individuo è tale solo in quanto parte di qualcosa di più grande. Non poter fare parte di questo “qualcosa” può generare traumi gravi. Esemplare il caso di Norihiro, un ingegnere la cui vergogna per essere stato licenziato lo ha portato ogni mattina, per anni, a indossare camicia e cravatta, a salutare la moglie con un bacio affettuoso e a fingere di andare al lavoro. Tutto questo fino a quando, finiti i soldi, è stato costretto ad ammettere la realtà. La vergogna è stata tale che Norihiro ha deciso di scomparire, di diventare uno johatsu. Si è trasferito a Sanya, un luogo così fuori dall’idea di città che in molte mappe di Tokyo nemmeno compare: dal 1966, i confini geografici di questo ghetto sono stati cancellati e l’area spezzettata e inserita in altri quartieri. A Sanya, come in altre città o distretti, le autorità fingono di non vedere cosa accade. Qui vivono i kamikakushi, “gli spiriti scomparsi”. Così irreali da non essere veri. Le storie di queste persone spesso finiscono per confondersi con altre del tutto surreali.
I numeri degli johatsu sono tutt’altro che finzione. Come per le migliaia di minori scomparsi in ogni parte del pianeta (in Italia, i minori di cui è stata denunciata la scomparsa nei primi sei mesi del 2023 – e mai più ritrovati – sono quasi seimila) sono una triste realtà. In Giappone, l’Agenzia nazionale di polizia registra circa 80mila scomparsi ogni anno. Molti vengono ritrovati, ma pochi tornano alla vita di prima. Di migliaia non si sa più nulla. Ma secondo la Missing Persons Search Support Association of Japan (MPS), un’organizzazione senza scopo di lucro, i numeri ufficiali sono sottostimati: “Il numero reale, non registrato, è stimato in diverse volte 100mila”.
Per assurdo che possa sembrare, molti johatsu “svaniscono” per aiutare i propri cari: fuggono da fallimenti aziendali o per debiti di gioco o a causa della rottura delle relazioni familiari. Non sono pochi quelli che, magari dopo qualche anno, finiscono per suicidarsi, tanto che il Giappone ha uno dei più alti tassi di suicidi tra i Paesi dell’OCSE. Sebbene in calo nell’ultimo decennio, i suicidi restano una delle principali cause di morte per la fascia d’età tra 22 e 44 anni. Per uno johatsu “evaporare” può evitare ai propri cari il disonore e l’obbligo di coprire i costi del suicidio o della morte spesso caricate ai parenti della persona si è suicidata.
Secondo Takehiko Kariya, professore di sociologia della società giapponese presso il Nissan Institute dell’Università di Oxford, il fenomeno degli johatsu è legato al fatto che in Giappone negli ultimi anni le scuole hanno cercato di migliorare la capacità degli alunni di far fronte a questi problemi. Ma non l’ambiente sociale o il sistema del lavoro: qui gli schemi sono ancora rigidi. Disciplina e lavoro di squadra sono le caratteristiche che hanno permesso al Giappone di riprendersi dopo la Seconda guerra mondiale e di resistere a due decenni di stagnazione economica. Le ferie sono diventate più brevi, le ore di lavoro più lunghe e le richieste dell’azienda ai propri dipendenti sempre più esigenti. Uno stile di vita che non fa per tutti. E che può causare decine di migliaia di johatsu ogni anno.