Israele – Palestina: lo scontro è anche per l’Acqua

di Daniele Garofalo

Il controllo e la gestione delle risorse idriche rimane uno dei punti sensibili in Medio Oriente, ove si verifica il water grabbing, “l’accaparramento dell’acqua”. Esso è presente anche nell’infinito scontro territoriale tra Israele e Palestina.
La lotta per l’acqua è da anni al centro del conflitto tra palestinesi e israeliani, divenuta crisi nell’estate 2016 quando numerosi villaggi e campi profughi palestinesi rimasero senz’acqua per giorni. In base agli accordi di pace ad interim di Oslo II del 1995, la distribuzione delle risorse idriche tra israeliani e palestinesi sarebbe dovuta essere divisa rispettivamente all’80% per Israele e il 20% per i territori palestinesi, in attesa di uno statuto definitivo che avrebbe dovuto dare vita allo Stato palestinese. Oggi queste quote sono ulteriormente ridotte, con i palestinesi che hanno accesso solo al 14% delle risorse dei bacini. Nonostante nella parte centro-settentrionale dei territori palestinesi siano presenti falde acquifere e bacini di raccolta delle piogge, essi dipendono in larga parte da Israele per la fornitura di acqua. La gestione delle risorse e delle infrastrutture idriche, però, è condizionata da numerosi fattori: scarsa manutenzione, bombardamenti, inquinamento, ingerenza militare israeliana, pompaggio eccessivo delle colonie, difficoltà di coordinamento tra i livelli amministrativi e politicizzazione della problematica da entrambe le parti in causa.

Bacini e risorse.
Gli abitanti di Israele e dei territori palestinesi condividono le più importanti fonti di acqua potabile del Medio Oriente. La principale risorsa è il fiume Giordano, i cui maggiori affluenti sono l’Hasbani, che giunge dal Libano, il Dan, che ha origine all’interno dei confini israeliani, il Baniyas, che proviene dalle Alture del Golan e il fiume Yarmuk, tra Siria e Giordania. Israele, inoltre, sfrutta il lago di Galilea come bacino di stoccaggio da cui preleva acqua potabile tramite il National Water Carrier, una rete di canali che rifornisce di acqua le aree costiere e gli insediamenti nel deserto del Negev. Le altre fonti idriche utilizzabili sono costituite dai bacini idrici sotterranei che emergono in superficie sotto forma di sorgenti o mediante il prelievo tramite l’escavazione di pozzi. Essi, sono situati sotto le regioni della Giudea e della Samaria e nella falda sotterranea costiera nell’area di Gaza. In Cisgiordania, la principale risorsa di acque sotterranee è la falda acquifera montuosa, i Mountain Aquifers, contesi da Israele e Palestina, comprendente a sua volta tre bacini idrici. Il primo, è la falda acquifera Yarkon-Taninim, con una capacità annua di 362 milioni di metri3. Essa, si rinnova all’interno della West Bank, ma l’area di stoccaggio si trova per circa l’80% all’interno dei confini di Israele, che la sfrutta per mezzo di 300 pozzi costruiti ad Ovest della Green Line. Il secondo bacino è la falda acquifera “Schechem-Gilboa Aquifer”, con una capacità annuale di 145 m3. Quasi il 90% della sua acqua proviene da precipitazioni che ricadono in Cisgiordania, ma la falda scorre poi sottoterra in direzione nord verso Bet She’an e la Valle di Jezreel in Israele. Il terzo bacino, infine, è la falda orientale, interamente all’interno della West Bank, con una capacità annuale di 172 m3. A Gaza, invece, gli unici bacini idrici disponibili, sono la Wadi Gaza, di cui gran parte viene deviata da Israele per scopi agricoli all’interno del suo territorio o verso le colonie prima di giungere nella Striscia e la falda acquifera costiera, che scorre sottoterra. Israele, negli ultimi anni, ha però installato una serie di pozzi molto profondi lungo il confine di Gaza e in questo modo estrae gran parte delle acque sotterranee, riducendo quelle che giungono nella Striscia.

Difficoltà e problematiche.
Nelle aree palestinesi a essere più colpiti dalla scarsità idrica sono le aree rurali e i campi profughi. In questi ultimi, le infrastrutture sono vecchie e l’UNRWA non ha le autorizzazioni per realizzare nuovi impianti ma può solo monitorare la qualità dell’acqua. La disponibilità pro-capite di acqua si è drasticamente ridotta negli ultimi anni, con l’accesso ad essa che avviene ogni 4 o 5 giorni e spesso di notte e per pochissimo ore. Nelle tubature palestinesi ogni anno vengono persi circa 26 milioni di m3 d’acqua. Nei settori palestinesi serviti dalla Mékorot, la rete nazionale israeliana, lo stato di manutenzione è insufficiente e quindi fino al 40% dell’acqua trasportata in Cisgiordania è persa in rete. A Tulkarem, le perdite idriche ammontano a circa il 60% e a Ramallah superano il 20%. Le infrastrutture sono carenti, i pozzi sono profondi in media oltre 300 metri e quindi difficili da raggiungere, le riserve sono scarse, le tubature sono fatiscenti, molte risalgono agli anni ’50 e ‘ 60, gli impianti di depurazione sono insufficienti e mal gestiti dalle autorità palestinesi. La situazione è ancora più tragica a Gaza, dove le infrastrutture idriche, fognarie e depurative sono quasi completamente state distrutte nel corso delle operazioni militari e dei bombardamenti. Peraltro il bacino acquifero che alimenta Gaza, essendo sfruttato pure da Israele, è insufficiente al fabbisogno della Striscia e, trovandosi al di sotto del livello del mare, è sottoposto a continue infiltrazioni da parte di acqua reflua, fertilizzanti ed acqua salina. La falda acquifera costiera, inoltre, si sta lentamente degradando, a causa dell’infiltrazione di acqua salata causata dal pompaggio eccessivo. Tutto ciò ha comportato che il 96% dell’acqua non è potabile, a causa dell’altissima concentrazione di cloruri e nitrati. Ciò, costringe gran parte dei palestinesi a dover far affidamento su impianti di desalinizzazione privati, spesso anch’essi malfunzionanti. L’inquinamento nella Striscia di Gaza è aumentato perché i tassi di inquinamento dell’acqua marina hanno raggiunto il 73%, causando un effetto negativo sulla salute, in particolare di bambini e donne in gravidanza, arrecando malattie del tratto renale e urinario. È diventato, pertanto inevitabile per molti palestinesi per rifornirsi di acqua, la necessità di rivolgersi alle autocisterne di fornitori privati, con costi elevatissimi e con pochissimi controlli sulla qualità della stessa.

Le decisioni di Tel Aviv e l’attività delle colonie.
La situazione risulta ancora più difficile a causa dei continui scontri tra israeliani e palestinesi, dai bombardamenti, dai divieti, dagli embarghi e dall’occupazione coloniale. Esiste una legislazione specifica per l’accesso all’acqua da parte dei palestinesi. Per ogni pozzo o infrastruttura da costruire, occorre un permesso dall’Autorità civile regionale israeliana (ICA). Ci sono 97 progetti urgenti in Cisgiordania, sostenuti da Stati donatori, che negli ultimi sei anni non sono stati approvati o rallentati dall’ICA. A ciò si aggiungono i blocchi della dogana israeliana di componenti necessari per la manutenzione o la riparazione degli impianti. I palestinesi sono costretti a rifornirsi per più del 50% dei propri fabbisogni idrici dalla Mékorot, che ha il controllo esclusivo del sistema integrato, e che spesso, nei mesi estivi per coprire il fabbisogno crescente delle colonie, riduce anche del 60% la quota idrica destinata ai palestinesi. Nei periodi di stress idrico, inoltre, la pressione dell’acqua per i territori palestinesi, diminuisce fino al 40%. Il 70% dell’Area C della Cisgiordania inoltre è spesso completamente scollegata dalla rete idrica.

Le inadempienze intra-palestinesi e le possibili soluzioni.
In realtà, non sono esclusivamente gli israeliani a limitare la fornitura idrica, ma notevoli colpe ricadono anche sulle Autorità palestinesi. Esse, spesso, non intervengono per migliorare la situazione e per effettuare manutenzioni, impiegando la crisi idrica come leva politica contro l’espansione delle colonie, in costante crescita, contro Israele e per mantenere un forte consenso sulla popolazione. Le Autorità palestinesi, hanno completamente non curato lo sviluppo del sistema idrico e la conservazione e la manutenzione dei sistemi idrici municipalizzati sono trascurati, nonché i progetti di frequente abbandonati.
Il problema della crisi idrica può essere parzialmente risolto interrompendo il pompaggio continuo di acqua dai bacini sotterranei da parte di entrambi le parti in causa. Le Autorità palestinesi, inoltre, dovrebbero cercare alternative o accordi con altri Stati per la fornitura di risorse idriche. L’attuazione di progetti di impianti di desalinizzazione e depurativi e la loro costante manutenzione potrebbero permettere l’utilizzo di una percentuale di acqua contaminata. Un’altra soluzione potrebbe essere l’implementazione di infrastrutture per il riutilizzo delle acque reflue e la raccolta di acqua piovana. Ovviamente senza un sospensione dei bombardamenti e delle operazioni militari, e senza reali accordi di pace, ogni intervento sulla rete idrica e sulle infrastrutture diviene inutile. Una soluzione definitiva, per il futuro Stato palestinese, potrebbe essere l’eventuale sganciamento della rete idrica israeliana, che qualora dovesse verificarsi, sarà di notevole difficoltà, con costi onerosi e di improbabile realizzazione senza il supporto, non solo economico, da parte di importanti partner internazionali con l’appoggio di attori esterni, dell’ONU e di ONG.