Fra una manciata di giorni, entro fine febbraio, l’Alta corte di Giustizia del Regno Unito si esprimerà definitivamente, secondo i dettami della legge inglese, se accettare l’estradizione di Julian Assange negli Stati Uniti oppure no. In queste ore si stanno perciò moltiplicando appelli e iniziative a favore della libertà per Assange in molte nazioni europee, e non solo, Italia compresa.
Lo scorso 6 febbraio la relatrice speciale sulla tortura delle Nazioni Unite, Alice Jill Edwards, ha fatto appello, con una esortazione al Regno Unito, affinché fermi definitivamente la possibilità di estradare Assange negli States, dove il giornalista, fondatore di WikiLeaks, è atteso per essere processato come nemico della sicurezza nazionale americana. La Edwards, più precisamente, ha fatto appello all’articolo 7 del Patto sui diritti civili e politici, il quale recita che “nessuno può essere sottoposto a tortura, a pena o a trattamenti crudeli, disumani e degradanti”.
Oltre a ciò, la relatrice speciale ha fatto riferimento anche all’articolo 3 della Convenzione Onu contro la tortura (“nessuno Stato espelle, respinge, né estrada una persona verso un altro Stato qualora esistano serie ragioni per ritenere che vi sia il rischio tortura”) e infine anche all’articolo 3 della Convenzione Ue sui diritti dell’uomo che ribadisce lo stesso concetto.
Che cosa ha fatto Julian Assange per avere stimolato nei suoi confronti una accusa così grave da parte degli Stati Uniti? Assange, giornalista originario dell’Australia, in quanto fondatore ed editore di WikilLeaks rese pubblici migliaia di documenti segreti sugli abusi perpetrati dall’esercito americano in Iraq e in Afghanistan. La documentazione di cui si è avvalsa WikiLeaks è consistita soprattutto di cablogrammi e carteggi diplomatici che, secondo l’Espionage Act del 1917, non avrebbero potuto essere pubblicati nemmeno da un giornalista.
Secondo gli Stati Uniti nessuno al mondo avrebbe dovuto sapere che cosa è stato Guantanamo per i prigionieri e così tante altre altre situazioni davvero scioccanti di cui abbiamo appreso solo grazie a WikiLeaks.
Le accuse contro Assange, sommate fra loro, portano a una contabilità di pena detentiva di 175 anni, da scontare in un carcere di massima sicurezza, il quale, dopo un processo a suo carico in Virginia in stato di isolamento prolungato, potrebbe essere quello di ADX Florence in Colorado.
Secondo gli avvocati della difesa, fra cui la stessa moglie di Julian, Stella Moris (avvocato penalista di origini sudafricane), nonché di alcuni medici, Assange soffre da tempo di una grave sindrome depressiva ricorrente che potrebbe spingerlo al suicidio in simili condizioni, di certo peggiorative rispetto al carcere di massima sicurezza di Belmarsh, nei sobborghi di Londra, dove Julian è detenuto dall’aprile del 2019, quando fu prelevato di peso da poliziotti britannici all’interno dei locali dell’ambasciata dell’Ecuador, dove aveva ricevuto asilo fin dal 2012.
La relatrice Edwards, che come abbiamo riferito solleva dubbi sulla compatibilità dello stato di salute di Assange con le condizioni carcerarie in caso di estradizione oltreoceano, ha dunque basato le sue esortazioni soprattutto sulle evidenze fisiche e mentali di Julian, che nelle rare immagini circolanti appare visibilmente molto provato. L’udienza (che dovrebbe svolgersi il 20 e 21 febbraio) farà quindi il punto su questo aspetto, del resto nella precedente sentenza britannica del 2021, in primo grado, la richiesta di estradizione fu respinta proprio per lo stato di salute di Julian.
Come fa notare la giornalista di origini sarde, Sara Chessa, autrice del saggio “Distruggere Assange” (uscito nel 2023 per i tipi di Castelvecchi), il caso Assange è particolarmente significativo riguardo alla volontà di creare un danno incalcolabile a un uomo in carne e ossa, per distruggerlo psicologicamente e per scoraggiare in tutto il mondo “gli altri Assange”, ovvero i reporter che potrebbero condividere con lui l’ideale di un giornalismo d’interesse pubblico. Da Londra, dove vive e lavora, la Chessa continua a documentare e a seguire puntualmente la vicenda Assange ed è divenuta ormai un punto di riferimento, come per l’Italia lo è in particolare la giornalista Stefania Maurizi per chi continua a informarsi su questo caso emblematico. Ricordiamo, inoltre, che sul fronte politico-diplomatico si sta spendendo a favore della liberazione di Assange, in quanto cittadino australiano, anche il premier laburista australiano Anthony Albanese.
Sara Chessa ci ha spiegato, in uno dei nostri recenti incontri, che il caso Assange va approfondito attraverso il solco di due battaglie parallele, quello giudiziario e quello diplomatico e ha infine concluso: “Se Assange verrà estradato si creerà un precedente pericolosissimo, sotto il profilo giudiziario, per tutti i giornalisti che si occupano di dossier caldi, mentre dal punto di vista della mobilitazione da parte dei sostenitori di Julian, c’è bisogno che la società civile si faccia sentire molto di più”.
Segnaliamo a questo proposito che il prossimo 15 febbraio a Roma (ore 18:30 in via Monte Senario 83) avrà luogo un dibattito per fare il punto sul caso Assange. In questa occasione sarà anche possibile assistere alla proiezione del film documentario Ithaka, prodotto e voluto dal padre e dal fratello di Julian (John e Gabriel Shipton) e dalla moglie di Julian, Stella Moris.
Foto (pda) :
1) Stella Moris, moglie di Julian Assange;
2) Il padre di Julian, John Shipton;
3) La scultura dell’artista italiano Davide Dormino che mostra una sedia vuota, quella sulla quale dovrebbe trovare salire il giornalista Assange, detenuto in carcere.
D.B.