La guerra che sconvolge il Medio Oriente

di Marco Corno

Negli ultimi due anni la destabilizzazione dell’ordine internazionale sembra aver conosciuto una preoccupante accelerazione. Dopo lo scoppio della guerra russo-ucraina il 24 febbraio 2022, adesso anche il Medio Oriente è scosso da una nuova e spaventosa guerra i cui effetti potrebbero sconvolgere lo scacchiere medio-orientale se non addirittura l’intero mondo.

L’attacco militare del 7 ottobre da parte del Movimento della Resistenza Islamica (Hamas) ad Israele, denominato operazione “Alluvione al-Aqsa”, ha dato inizio probabilmente ad un nuovo capitolo del conflitto israelo-palestinese che dura oramai da più di cento anni e soprattutto ha cambiato lo status geopolitico della potenza israeliana nella regione. L’invasione militare di Hamas ha strategicamente posto fine al mito dell’invincibilità di Israele che la nazione ha saputo costruirsi dal 1948 in poi, anno della sua nascita, e che ha permesso al popolo israeliano di diventare una delle potenze più temibili di tutto il Medio Oriente, costruendo una forte deterrenza nei confronti dei propri nemici della regione. Con tale attacco Hamas ha inoltre riportato la questione palestinese al centro degli equilibri regionali, isolato fortemente l’ANP (l’Autorità Nazionale Palestinese), guidata da una leadership considerata oramai debole e inefficiente, proclamandosi come unico e vero rappresentante della causa palestinese.
La morte e la distruzione lasciata dal partito islamico vicino alla Fratellanza Musulmana è stato, ancor prima che un colpo politico, un violento shock psicologico che ha suscitato un forte senso di vulnerabilità nell’opinione pubblica israeliana, già afflitta da profonde divisioni interne, sfociate nelle proteste contro la riforma della giustizia voluta dal governo Netanyahu.
Il fallimento dell’intelligence israeliano ha permesso ad Hamas di prendere l’iniziativa della guerra, mettendo il governo Netanyahu di fronte ad un bivio tattico: o invadere su larga scala la Striscia di Gaza per cercare di ripristinare parzialmente la deterrenza, a costo però di accettare un pesante logoramento, oppure evitare si la soluzione manu militari, organizzando qualcosa di più localizzato, ma accettare la sconfitta politica. La scelta di Gerusalemme di invadere Gaza, probabilmente condizionata dall’onda emotiva del momento, rischia però di essere un boomerang per il governo Netanyahu che potrebbe causare il rafforzamento del partito islamico, e non la sua eliminazione, attirando nuovi miliziani e simpatizzanti grazie ad una propaganda esaltatrice del “martirio” dei combattenti e della violenza del nemico, impantanando l’esercito israeliano in una guerra asimmetrica pressoché infinita.
Nel campo della geo-strategia, questa nuova guerra israelo-palestinese si inserisce all’interno del più ampio scontro tra Israele ed Iran per l’influenza nella regione che diventa sempre più aspro con lo scorrere degli anni. Da decenni Teheran e Gerusalemme si affrontano sia in una “guerra ombra” perpetrata dai Pasdaran e dal Mossad (fatta di assassini politici-istituzionali, spionaggio, sequestro di persona e sabotaggi delle infrastrutture strategiche di entrambe le parti) sia in una proxy war nelle principali aree di tensione della regione. Dallo scoppio della guerra civile siriana nel 2011, la guerra per procura tra le due potenze si è intensificata ulteriormente non solo nel sud della Siria, oggetto negli ultimi cinque anni di continui bombardamenti israeliani alle infrastrutture militari iraniane, ma anche nel Kurdistan iracheno e nel Caucaso.
Con l’appoggio all’operazione di Hamas, Teheran ha voluto rafforzare il suo ruolo di potenza anti-israeliana della regione, scoraggiare l’avvicinamento delle Monarchie del Golfo ad Israele e vendicare le uccisioni per mano israeliana. L’attacco di Hamas infatti avviene qualche mese dopo lo storico accordo di riconciliazione tra Iran e Arabia Saudita mediata dalla Cina, due grandi rivali della zona medio-orientale. Un evento che geopoliticamente ha cambiato gli equilibri del Medio Oriente, permettendo da una parte all’Iran di uscire dall’isolamento nel quale era caduto dal 2018, in seguito al ritiro unilaterale degli Stati Uniti dal JCPOA, e dall’altra di acquisire un margine di manovra più ampio nell’area soprattutto verso il governo israeliano.
Ma la violenza innescata, ha creato i presupposti per un allargamento del conflitto prima al Libano e poi all’Iran.
I continui, e sempre più violenti, scontri a fuoco lungo il confine israelo-libanese tra l’esercito israeliano e i miliziani filo-iraniani di Hezbollah, che hanno causato morti e l’evacuazione di decine di centri abitati, non sono semplici manifestazioni di forza ma i prodromi dell’inizio di un allargamento del conflitto che probabilmente coinvolgerà l’intero Libano. Il ministro della difesa israeliano Yoav Gallant ha già dichiarato che il governo potrebbe decidere di aprire un secondo fronte nel sud del Libano, se la diplomazia dovesse fallire, per respingere i miliziani di Hezbollah oltre il fiume Leonte.
Il pericolo peggiore però per la sicurezza regionale sarebbe uno scontro diretto tra Israele e Iran che scatenerebbe una grande guerra regionale.
La disperata-debole pressione degli Stati Uniti è proprio finalizzata a scongiurare un simile scenario. Washington teme che Gerusalemme possa organizzare nei prossimi mesi una rappresaglia militare su larga scala contro Teheran che innescherebbe una guerra nella quale la super potenza verrebbe coinvolta obtorto collo, distraendola ulteriormente dal sud-est asiatico. L’invio delle portaerei americane Ford e Eisenhower nei pressi delle acque territoriali israeliane lo scorso ottobre, è la classica “diplomazia delle cannoniere” che si pone il fine di prevenire un ulteriore escalation del conflitto: rassicurando Israele sulla vicinanza americana e scoraggiando i suoi nemici ad approfittare della vulnerabilità del momento. L’amministrazione Biden è così preoccupata che, in occasione dell’incontro con il premier israeliano Netanyahu, Biden ha consigliato a quest’ultimo di non ripetere gli stessi errori commessi dagli Stati Uniti dopo l’11 settembre. Dichiarazioni forti che segnalano l’intenzione americana di continuare a supportare Israele in un momento così difficile ma allo stesso tempo di non appoggiare in toto tutte le scelte del governo Netanyahu. Posizione che potrebbe causare nel medio periodo tensioni tra le parti come di fatto sta già accadendo. Sebbene durante la riunione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dello scorso 8 dicembre gli Stati Uniti abbiano posto il veto sulla risoluzione che chiedeva un cessate il fuoco umanitario, la decisione di Washington di sanzionare i coloni israeliani responsabili delle violenze in Cisgiordania, negando loro il visto, è il primo segnale di un rapporto che si sta complicando così come le critiche della Casa Bianca al modus operandi del governo israeliano nei confronti dei civili di Gaza che ne starebbe provocando l’isolamento internazionale.
L’impasse diplomatico rimane e la tregua mediata dal Qatar, durata dal 24 novembre al 1 dicembre, è servita per lo scambio di prigionieri tra le parti belligeranti ma non ha portato a nessun risultato politico concreto; segnale che la guerra durerà ancora a lungo e che le parti belligeranti non si fermeranno fino a quando non avranno raggiunto i risultati sperati. Se l’iperbole del conflitto dovesse proseguire con tale intensità, lo scontro tra Iran e Israele è solo questione di tempo.