Messico. Due anni dalla scomparsa dei 43 studenti di Ayotzinapa

di Marco Dell’Aguzzo –

Messico 43 studentiDa settecentotrenta giorni in Messico il 26 settembre significa sparizione. Quella dei quarantatré allievi della Scuola normale rurale di Ayotzinapa, scomparsi dalla città di Iguala la notte del 26 settembre di ormai due anni fa.
Ma le autorità messicane non la pensano allo stesso modo. Non pensano innanzitutto che si tratti di sparizione forzata (cioè direttamente attuata e coperta dallo Stato), e non pensano nemmeno che i giovani siano ancora da considerarsi dispersi: la “verità storica” ufficiale sul ‘caso Iguala’ – sebbene non confermata e anzi addirittura contraddetta dalla scienza – li vuole infatti morti, inceneriti in una discarica nei pressi della città di Cocula dalla gang dei Guerreros Unidos, che li avrebbe erroneamente scambiati per membri di una organizzazione criminale rivale. Per la giustizia messicana il ‘caso Iguala’ si è sostanzialmente chiuso il 7 novembre 2014 – giorno in cui la Procura generale (PGR), nella persona di Jesús Murillo Karam, presentò la suddetta ricostruzione –, e andrebbe catalogato nel corposo archivio delle storie di violenza legate al narcotraffico.
Praticamente tutto quello che è seguito a quella data, sia nel primo anno di vita del caso che nel secondo, è servito alle istituzioni messicane per offrire all’opinione pubblica una conferma della loro “verità”. Verso questo scopo muoveva sia l’annuncio del rinvenimento dei resti di Alexander Mora e di Jhosivani Guerrero (due dei normalisti scomparsi), sia la pubblicazione dei dossier delle indagini e dei risultati delle perizie ufficiali sul luogo del presunto incendio. Ma la decantata ‘trasparenza’ è più propaganda che realtà: i tre dossier contengono interi paragrafi coperti con pesanti tratti di pennarello nero, le perizie non forniscono né spiegazioni né dettagli sulle modalità con cui sono state condotte, mentre il ritrovamento e l’analisi dei resti ossei dei due studenti sono avvenuti in circostanze poco chiare.
José Torero, professore all’Università di Queensland e rinomato scienziato, ha recentemente provveduto a smentire l’episodio del rogo nella discarica e della cremazione degli studenti. Utilizzando delle carcasse di maiale dal peso di 70 kg circa ciascuna, e bruciandole singolarmente con 630 kg di legna, Torero ha potuto osservare come il fuoco non riuscisse comunque a cancellare completamente la carne dell’animale. Bruciare assieme quarantatré corpi umani dello stesso peso medio avrebbe richiesto tra i 20.000 e i 40.000 kg di legname, e anche ammesso che i narcos fossero riusciti a procurarsi così tanto combustibile, del materiale organico sarebbe comunque sopravvissuto all’incendio. Un fuoco talmente imponente avrebbe poi senz’altro dovuto danneggiare le cortecce degli alberi attorno alla discarica, conseguenza che invece non si è verificata. L’esperimento di Torero non poteva insomma portare ad altra conclusione, se non che è impossibile che i normalisti siano stati cremati nella discarica di Cocula.
Oltre ad essere priva di fondamenta scientifiche, la “verità storica” si regge su confessioni estorte con la tortura e costruite ad arte. Secondo il GIEI (un gruppo di esperti nominato dalla Commissione Interamericana dei Diritti Umani a svolgere indagini autonome sul caso, che il governo messicano ha però deciso di sollevare dall’incarico a fine dello scorso aprile), infatti, almeno l’80% dei detenuti per il ‘caso Iguala’ – perlopiù presunti membri del mini-cartello dei Guerreros Unidos, persone ritenute vicine all’organizzazione e poliziotti di livello municipale – è sicuramente stato torturato, compreso il narcotrafficante El Gil, uno dei testimoni chiave, colui che secondo la PGR avrebbe materialmente ordinato il rapimento degli studenti e successivamente la loro cremazione. Il GIEI sostiene pertanto che non esistano prove – quelle ottenute presumibilmente sotto tortura non possono dirsi valide – per affermare che i quarantatré studenti, o anche una parte di loro, siano stati condotti alla discarica di Cocula.
Il 27 aprile scorso la PGR ha aperto un’indagine interna contro Tomás Zerón – direttore dell’Agenzia di investigazione criminale della PGR stessa, dimessosi il 14 settembre appena passato per approdare al Consiglio nazionale di sicurezza nel ruolo di segretario tecnico – dopo che il GIEI diffuse un video, datato 28 ottobre 2014, che mostrava Zerón aggirarsi per il fiume San Juan (dove secondo la Procura i narcos avrebbero gettato, chiusi in delle borse, i resti degli studenti calcinati) in compagnia di un detenuto ammanettato esattamente un giorno prima della perizia ufficiale. Nel video si vedevano anche dei sacchetti di plastica simili a quello che pare contenesse i resti di Alexander Mora, che la PGR dice di aver ritrovato appunto il 29 ottobre. Zerón rispose che la sua presenza sul luogo era parte dell’indagine e che i due rappresentanti delle Nazioni Unite che erano con lui potevano confermarlo, ma l’ONU smentì immediatamente le sue parole, affermando di non essersi mai recato presso il San Juan.
In tutto questo, la PGR si ostina a non voler includere l’Esercito e la Polizia federale nelle indagini, nonostante il loro coinvolgimento nei fatti di Iguala sia stato provato dal lavoro del GIEI e da varie investigazioni giornalistiche. Il 27° battaglione di fanteria dell’Esercito messicano era di stanza proprio ad Iguala, ma non intervenne a difesa degli studenti sebbene li stesse stranamente monitorando già da prima del loro ingresso in città. La notte del 26 settembre 2014 ad Iguala erano presenti anche la Polizia federale e quelle municipali di Iguala, Cocula e Huitzuco. Il ruolo di queste ultime tre è stato riconosciuto anche dalla PGR; tuttavia, un filmato ripreso dalle telecamere del Palazzo di giustizia di Iguala che aveva registrato alcuni momenti dell’attacco e del sequestro di un gruppo di studenti presumibilmente ad opera di corpi di polizia di diverso livello e municipio – e quindi preziosissimo per le indagini – è stato perso dalle stesse autorità incaricate di custodirlo, e non ne esisterebbero delle copie.
messico-studenti-scomparsi-grandeNonostante la scarsa volontà di collaborazione delle istituzioni messicane, il GIEI è comunque riuscito ad avere accesso alla dichiarazione che un membro della Marina rilasciò davanti alla PGR nel giugno 2015, nella quale accusava un soldato del 27° battaglione di trafficare armi per conto dei Guerreros Unidos. E sempre il GIEI ha dimostrato come i cellulari di molti normalisti risultassero attivi ben oltre il 27 settembre 2014: ennesima smentita della “verità storica”, per la quale i telefoni sarebbero stati inceneriti assieme ai loro proprietari. Uno dei ragazzi rapiti, inoltre, inviò un messaggio alla madre intorno all’1:15 del 27 settembre, quando per la PGR sarebbe già dovuto essere morto da più di un’ora.
Secondo il GIEI, per quella notte era stato senza dubbio organizzato un attacco coordinato, con tanto di posti di blocco, contro gli studenti di Ayotzinapa. Ma resta ancora da capire perché. Il GIEI ipotizza che in uno dei cinque autobus (per la PGR i pullman in possesso degli studenti quel giorno erano quattro) dirottati dai normalisti fosse nascosta una grossa partita di eroina che avrebbe dovuto raggiungere Chicago e che i Guerreros Unidos, con la complicità delle forze armate e dell’ordine, volevano assolutamente recuperare. Altri, ricordando come il sottosuolo dello stato di Guerrero sia straordinariamente ricco di oro, puntano il dito contro le compagnie minerarie, accusandole – forti dell’appoggio dell’Esercito – di reprimere gli attivisti ambientali e i difensori del bene pubblico, posizioni assunte anche storicamente dagli allievi della Normale rurale di Ayotzinapa.

Twitter: @marcodellaguzzo