Messico. Un anno dal massacro di Tlatlaya: restano i dubbi e l’acredine

di Marco Dell’Aguzzo

Tlatlaya massacroÈ passato un anno dal massacro di Tlatlaya, Stato del Messico. E su quello che venne inizialmente presentato dalle autorità federali come uno scontro tra militari e criminali, uno scontro in cui morirono 22 persone, calò praticamente da subito l’ombra dell’esecuzione di massa.
Sarà utile fare un passo indietro e ricapitolare almeno per sommi capi quanto successo.
Il 30 giugno 2014 la Segreteria della difesa messicana (Sedena) informa tramite un comunicato di un conflitto armato tra militari e presunti criminali in una sorta di deposito a San Pedro Limón, nel municipio di Tlatlaya, Stato del Messico, fornendo anche il numero delle vittime: i morti, 22 (21 uomini e una donna), sono tutti “criminali”, mentre tra le fila dell’esercito c’è stato un solo ferito. Il governatore dello Stato del Messico assicura immediatamente che l’Esercito agì per legittima difesa, ma la versione ufficiale non convinse tutti, e non convinse del tutto. In molti si chiesero, ad esempio, come è stato possibile che, nonostante i presunti criminali avessero aperto il fuoco per primi, nessun soldato perse la vita, e soltanto uno riportò delle ferite.
L’8 luglio l’agenzia di stampa statunitense Associated Press pubblica un articolo che mina alle fondamenta la ricostruzione della vicenda così come presentata dalla Sedena. La scena dello scontro, secondo molti giornalisti, non mostra evidenti segni di un conflitto armato; anzi, in alcuni punti le pareti del deposito mostrano fori di proiettile contornati da schizzi di sangue, come se i “criminali” fossero stati messi al muro e fucilati. La Associated Press avanza anche l’ipotesi di una scena del crimine alterata: sul pavimento del deposito sono stati trovati dei telefoni danneggiati e privi di scheda SIM.
Da qui si scatena un tira e molla tra i giornali che mettono in evidenza le contraddizioni del “masacre en Tlatlaya”, come inizia a venir chiamato, e le autorità federali che prontamente negano tutto.
A settembre la rivista “Esquire” pubblica un articolo firmato da Pablo Terri, che riuscì a intervistare una testimone oculare: secondo la donna, indicata come “Julia” per proteggere la sua identità, furono i soldati a sparare per primi, e i “criminali” si arresero dopo che uno di loro morì nella sparatoria. Così i militari prima interrogarono tutte le persone all’interno del deposito, dopodiché le allinearono al muro e le giustiziarono.
Il 25 dello stesso mese la Sedena informa di aver arrestato otto membri dell’esercito (un ufficiale e sette soldati) coinvolti nello scontro di Tlatlaya per “disobbedienza e violazione degli obblighi militari”. La Commissione messicana per i diritti umani (CNDH) ritiene che gli otto siano responsabili di 15 delle 22 esecuzioni totali, comprese quelle di due minori, e rilancia la tesi dell’alterazione della scena del crimine.
Seguono mesi di accuse rivolte (non entreremo nel dettaglio per non appesantire l’articolo) anche alla stessa Sedena, rea di aver, secondo alcuni, affrontato il caso in maniera imparziale ed inadeguata, e di aver sostanzialmente coperto i responsabili. La CEAV (Comisión Ejecutiva de Atención a Víctimas) si batte per un risarcimento ai familiare delle vittime.
Arriviamo a ieri, 30 giugno 2015. Nonostante siano trascorsi ben dodici mesi dall’accaduto, rimangono ancora dubbi su quanto successo, dubbi su chi siano i responsabili e dubbi su chi abbia deciso di coprire quella che, ormai è certo, è stata una esecuzione sommaria di massa. Il “caso Tlatlaya” ha messo in evidenza, come ha detto Guadalupe Correa-Cabrera della University of Texas, tutta la debolezza e la mancanza di trasparenza del sistema giudiziario messicano, tutta l’incapacità del governo federale e di quelli statali di assumersi le proprie responsabilità e di assicurare la giustizia, la sicurezza e il rispetto dei diritti umani nel paese.

Twitter: @marcodellaguzzo