Palestina. Le vittime di Hawara: paura e rabbia dopo i roghi dei coloni

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In tuta e pantofole Lamar riesce a sorridere accanto a due carcasse di auto annerite. Messe una sopra l’altra forse per far passare un carroattrezzi, entrambe senza vetri né sportelli: sono stati spaccati dalle pietre e divorati dalle fiamme.
“Ho paura ma cerco di non pensarci” sussurra la bambina, abbassando gli occhi, a pochi metri da casa, nel piazzale di quello che era un mercato. “Se ritornano ancora mi chiudo a chiave in stanza e se mamma non c’è scappo sul tetto dei vicini”. Lamar ha dieci anni e ad Hawara, una cittadina palestinese nel nord della Cisgiordania, nel governatorato di Nablus, è una sopravvissuta.
Era a casa con la madre alle sei di sera del 26 febbraio, quando è cominciato l’assalto: 400 o forse 500 persone, provenienti dagli insediamenti israeliani delle colline circostanti, sono arrivate a bordo di pullman dalla strada nuova, quella costruita solo per loro e che non attraversa il centro città. L’alternativa sarebbe stata passare dalla via principale di Hawara, che taglia il centro urbano, la stessa dove poche ore prima erano stati assassinati i fratelli Hillel e Yagal Yaniv, due coloni israeliani di 19 e 21 anni. “Si trovavano a bordo della loro automobile, bloccati nel traffico proprio come noi adesso” ci spiega una guida.
C’è chi ha definito i roghi del 26 febbraio “un pogrom”, violenze sulla base di appartenenze identitarie, come quelle tante volte subite dalle comunità ebraiche in Est Europa nell’Ottocento e nel Novecento. Altri hanno invece parlato di rappresaglia. Seguita in realtà essa stessa a un’rappresaglia: il 22 febbraio, pochi giorni prima dell’assassinio dei due fratelli, un commando dell’esercito israeliano aveva fatto irruzione nella vicina città di Nablus uccidendo 11 palestinesi. Tra le vittime, oltre a tre militanti ricercati come “terroristi”, diversi civili e due persone anziane.
Violenza chiama violenza. Tra le sei del pomeriggio e la mezzanotte del 26 febbraio ad Hawara sono state ferite con pietre e bastoni oltre cento persone, incendiati decine di negozi e assassinato un uomo di 37 anni, Sameh Hamdallah Aktash. Alcuni assalitori sono anche tornati di fronte alle botteghe sventrate, pregando, esultando e ballando.
Si è salvata Ruba Abou Soud Dmidi, 30 anni, ma oggi la sua casa è come un tizzone che ha finito di bruciare. Ci accoglie in quello che era il salotto, le mani conserte, accanto a uno scheletro di poltrona. Per terra ci sono vetri infranti che nessuno ha trovato la forza di raccogliere.
“Ho sentito i colpi, poi le grida, tante voci che urlavano e inveivano” ricorda Ruba. “Quando mi sono affacciata alla finestra, ho visto solo fuoco: credo fossi sotto shock, non so con certezza, devo essere corsa a chiudermi a chiave in bagno con in braccio il più piccolino della famiglia, che ha solo un anno”. Gli altri figli oggi non ci sono. “Ecco la mia bimba di sette anni, da alcuni giorni non parla quasi più” sussurra Ruba, mostrando foto sul display del telefono. “Anche il fratello non riesce a dimenticare: è a Nablus dai parenti, ha detto che qui non vuole tornare”.
Di fronte casa ci viene incontro il sindaco. Si chiama Moeen Dmeidi e non si dà pace. “Questo terrorismo ha dei responsabili politici” accusa: “I coloni contano sul sostegno del governo di Benjamin Netanyahu e sulla protezione dell’esercito”.
A tratti la voce di Dmeidi sembra tremare: “Il presidente della nostra Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas, ha sempre chiesto di rispettare gli Accordi di Oslo per la soluzione dei due Stati e non ha mai detto di voler ‘cancellare’ le colonie illegali”.
Quella del sindaco è una citazione. A chiedere di “cancellare” Hawara, salvo correggersi di fronte alle proteste dell’amministrazione americana nello sgomento seguito al 26 febbraio, è stato il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich: un colono, convinto come tanti altri che queste terre siano la Giudea e la Samaria e che appartengano a Israele.
Gli insediamenti, alti sulle colline, la bandiera con la stella di David che sventola sui cantieri di nuovi palazzi, sono sempre di più. Vengono su in zone dove, secondo gli Accordi di Oslo firmati nel 1993, dovrebbe costituirsi lo Stato palestinese. Si calcola che a oltre mezzo secolo dalla guerra del 1967 e
dall’inizio dell’occupazione militare, in Cisgiordania i coloni siano oltre 475mila. In alcuni casi gli insediamenti sono riconosciuti da Israele in modo unilaterale, in altri non lo sono. In entrambi i casi sono protetti dai check-point dell’esercito. La strada che conduce ad Hawara da sud passa accanto ad Ariel, l’insediamento israeliano più grande della Cisgiordania. Altri due sulle colline si vedono dal mercato, a pochi passi dalla casa di Lamar.
“Quello che è accaduto ad Hawara esemplifica ciò che sta succedendo in realtà da tempo” avverte Anthony Dutemple, capomissione di Premiere urgence internationale, una ong supportata da dieci Paesi dell’Ue, tra i quali la Francia e l’Italia. “Solo da inizio anno gli episodi di violenza e devastazione da parte dei coloni sono stati 166, peraltro con un coordinamento tra loro sempre maggiore”.
Gli operatori di Premiere urgence sono al fianco delle vittime. “Ad Hawara stiamo aiutando a riparare case, bar e negozi distrutti” riferisce Dutemple. “In prospettiva, bisogna assicurare mezzi di sostentamento alle famiglie che di quelle attività commerciali vivevano”. Lamar non parla inglese ma ascoltando annuisce accanto al fratello più piccolo: lui si chiama Joud e ha otto anni.