Serbia. Il gioco d’azzardo delle elezioni anticipate

di Valentino De Bernardis

Non c’è anno in cui in Serbia non venga ventilata la minaccia (o opportunità?) di elezioni anticipate. A differenza di quanto accade in altri paesi europei, il ricorso al voto anticipato non è sinonimo di debolezza dell’esecutivo, anzi. Sciogliere il parlamento e tornare alle urne rappresenta una prova di forza della maggioranza uscente che, certa della vittoria, ha come unico obiettivo quello di prolungare nel tempo la propria permanenza alla guida del paese.
Una consuetudine iniziata nel 2014 sotto la pressione del Partito Progressista (SNS), che nell’occasione ottenne 158 seggi su 250 e capovolse il rapporto di forza con gli alleati del Partito Socialista (SPS). Situazione ripetuta nel 2016, sempre su decisione del SNS, che riuscì ad aggiudicarsi 131 seggi nonostante due anni di politiche di austerità e l’adozione di impopolari riforme strutturali. Vittorie di partito, ma sopratutto vittorie personali del proprio leader Aleksandar Vucic, capace di trasformarsi in pochi anni da un outsider della politica, a padre padrone del paese.
Un modo chiaro di interpretare il bisogno di ricorrere prima del tempo alla volontà popolare (non sta a noi qui giudicare se giusto o sbagliato), alla continua ricerca di una sempre viva e forte legittimazione, per poter trattare da una posizione solida con tutte le controparti con cui si trovava a confrontarsi, sia interne (sindacati e opposizioni) che esterne (Unione Europea). Per questo motivo le voci che si rincorrono dallo scorso dicembre di un probabile ritorno al voto nel 2019 (marzo? aprile?) potrebbero trovare un pronto riscontro qualora il Partito Progressista dovesse trovarle politicamente opportune.
La motivazione per richiedere un voto anticipato di un anno sul termine naturale della legislatura potrebbe essere quello di ottenere un pieno nella fase di contrattazione diplomatica nella questione kosovara, specialmente dopo la decisione del governo di Pristina a fine 2018, di imporre dazi sui beni importati dalla Serbia, con l’intenzione di mantenerli fino a quando non sarà riconosciuta la sua piena autonomia statuale. Questione di difficilissima soluzione, da affidare ad governo con un orizzonte temporale abbastanza lungo, e una forte maggioranza parlamentare (meglio se mono partitica), per limitarne i danni.
A differenza di quanto successo in passato, questa volta siamo dinanzi ad un quadro politico nuovo, in cui il leader Vucic non ricopre più la carica di primo ministro, lasciata ad Ana Brnabic nel 2017 dopo essere diventato Presidente della Repubblica. Una carica istituzionale (anche se politicizzata), che vede gioco-forza un impegno indiretto di Vucic nella campagna elettorale, e con il rischio della nascita di nuove correnti all’interno del SNS, che un domani ne potrebbero mettere in discussione la leadership.
E l’opposizione? Assente. Nonostante le manifestazioni di strada nell’ultimo periodo, l’opposizione è ancora debole, divisa e incapace di offrire una reale alternativa di governo. Non è dopotutto un caso se il Partito Progressista è dato da tutti i sondaggi costantemente attorno al 50% delle preferenze, con una prospettiva di ulteriore crescita in caso di campagna elettorale data la sua enorme forza mediatica.
Nella certezza di una stabilità politica mai in discussione, neppure in caso di elezioni anticipate, la Serbia continua a crescere e a seguire un preciso percorso volto a garantirsi un ruolo di sempre maggior rilievo nei Balcani e in Europa.

Le opinioni espresse in questo articolo sono a titolo personale.
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