Siria. Lo scaccomatto che non arriva. Le basi della Russia, i contratti della Cina, il gas di Israele

di Enrico Oliari –

siria basi russia usa grandeUna base navale a Cuba, una in Vietnam ed una alle Seychelles: potrebbe essere questa la posta in cambio, annunciata dal ministro degli Esteri Sergej Lavrov, richiesta dalla Russia di Vladimir Putin per allentare il legame di Mosca con Damasco. La Siria ospita infatti presso il porto di Tartus un massiccio contingente russo fatto di truppe, navi, sottomarini, aerei da guerra e persino impianti missilistici: si tratta dell’unica base all’estero rimasta a Mosca dall’epoca della Guerra fredda, per altro rafforzata anche di recente in occasione della crisi siriana con l’invio di diverse navi da guerra, fra le quali la “Admiral Chabanenko”, fino a prima impiegata nel golfo di Aden nella lotta alla pirateria somala.
La presenza della Russia in Siria è uno degli elementi fondamentali per comprendere la situazione di stallo in cui versa la crisi siriana, dove gli insorti (ai quali si sono aggiunti persino miliziani di al-Qaeda ed ex ribelli libici) sono in lotta per abbattere il regime dittatoriale di Bashar al-Assad, da più parti ritenuto corrotto, e riportare la democrazia nel paese.
La base di Tartus è infatti in mano russa, mentre tutti gli altri paesi dell’area, dall’Egitto al Kirghizistan, dall’Afghanistan all’Oman, dall’Arabia Saudita all’Iraq, da Israele all’Armenia, (ad esclusione dell’Iran) ospitano basi statunitensi, motivo per cui Mosca ha esercitato il suo diritto di veto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu contro un intervento della Comunità internazionale in Siria sul modello della Libia.
Tuttavia gli oltre 16.000 morti, le continue stragi di civili rinvenute nei sobborghi, come nei pressi di Hama, dove sono stati rinvenuti 227 cadaveri di uomini, donne e bambini, gli oltre 200.000 reclusi nelle carceri, il milione e mezzo di profughi che sbanda senza meta nel Paese, non hanno indebolito il fermo rifiuto di un’altra nazione con diritto di veto: la Cina. Pechino infatti ha da sempre buoni rapporti con il governo di al-Assad, sia perché può contare sui porti e sulla logistica della Siria quale sbocco per i suoi commerci nel Mediterraneo, sia perché la Cina ha diversi contratti in atto per la costruzione di infrastrutture nel paese mediorientale, sia perché, politicamente, il regime bahatista ha da sempre sostenuto le ragioni cinesi in materia di Tibet e di Taiwan.
Non è quindi un caso se recentemente Georges Sabra, portavoce del Consiglio nazionale siriano, ha fatto sapere la proposta di compromesso delle opposizioni per sbloccare la situazione di stallo, ovvero di essere “d’accordo sulla partenza di al-Assad e il trasferimento dei poteri a una personalità del regime, per guidare un periodo di transizione sul modello di quanto è avvenuto nello Yemen”.
Per comprendere il terzo grande ostacolo che, di fatto, non permette una soluzione esterna del problema siriano, è necessario passare dall’annosa questione israelo-palestinese: durante l’ultimo inverno, a causa delle continue tensioni e scaramucce, il governo di Israele ha pensato di sospendere la fornitura di gas e di energia al milione e mezzo di abitanti di Gaza, lasciandoli letteralmente al freddo e al buio. Per ritorsione l’Egitto, già allora sotto l’influenza del Fratelli Musulmani, aveva deciso di sospendere la fornitura del proprio gas ad Israele, il quale arrivava ad Ashkelon (oltre la striscia di Gaza) attraverso un condotto sottomarino che partiva dal nodo di Arish (in Egitto) ed a sua volta da Port Said. Ma vi è un secondo gasdotto che arriva al nodo di Arish e che è vitale per Israele: il Gasdotto Arabico. Esso parte da Homs (una delle città siriane con i maggiori scontri), in Siria, dopo aver raccolto diverse diramazioni (anche dal Libano), attraversa la Giordania lungo il confine con Israele, arriva ad Aqaba, sul Mar Rosso, entra a Taba, in Egitto e risale il Sinai, fino a collegarsi, appunto, ad Arish.
Israele, che proprio sulla questione siriana ha sempre tenuto un profilo prudente se non defilato, teme che l’ascesa al potere dei Fratelli Musulmani in Siria possa trasformarsi in una sorta di pressione sulla questione palestinese, proprio per il rischio di uno stop all’approvvigionamento di gas, anche perché un terzo gasdotto sottomarino, proveniente da Cipro, non è ancora stato ultimato ed entrerà in funzione solo fra qualche anno.
Israele inoltre teme per la questione delle alture del Golan, strappate alla Siria nel 1967 con la Guerra dei Sei giorni: nonostante l’illegalità dell’azione, riscontrata a livello internazionale con la Risoluzione dell’Onu n. 497, Tel Aviv ha voluto includere nel proprio territorio le alture, importantissime sia per la posizione strategica che, soprattutto, per le risorse idriche, impiantandovi insediamenti di coloni (si contano circa 20.000 residenti); gli atteggiamenti in materia di Golan di Hafiz al-Assad, presidente della Siria fino al 2000 e del figlio Bashar sono da più parti ritenuti ambigui, tanto che i Fratelli Musulmani hanno già fatto sapere la loro intenzione di riannettere alla Siria le alture una volta acquisito il potere in Siria.
A riprova dei forti interessi di Israele e della Russia nella Siria di al-Assad, vi sono due dichiarazioni giunte venerdì scorso con le quali Mosca ha intimato gli insorti di stare alla larga dalla base di Tartus per non provocare la propria reazione militare ed Israele ha minacciato di bombardare i depositi di armi chimiche nel caso finissero nelle mani dei Fratelli Musulmani.
Se le file governative sono quindi interessate quotidianamente da continue defezioni di ambasciatori e di generali (quando la nave affonda…), il regime di al-Assad sa di poter contare su un apparato militare di prim’ordine e soprattutto sull’alleato russo, sul vicino israeliano e sulla onnipresente Cina. Non c’è quindi da stupirsi se gli insorti conquistano posizioni, come nel caso dei sobborghi di Damasco o di Aleppo, che poi perdono, in un alternarsi che potrebbe durare a lungo, dove a soffrire sono i più deboli.
Tensioni si stanno registrando anche lungo i confini della Siria: militari di al-Assad hanno più volte messo a segno operazioni in Libano, dove si raccoglierebbero elementi di al-Qaeda ed insorti, mentre per poco non si è arrivati al casus belli per la Turchia in quanto un aereo da caccia di Ankara, che aveva sconfinato di poco, è stato abbattuto dalla contraerea siriana; Libano, Turchia e Giordania ospitano inoltre campi profughi che si ingrossano di giorno in giorno.
Nonostante la Siria sia un paese di antica convivenza fra le confessioni e le religioni, sono cominciati a nascere dissidi (dovuti anche a strumentalizzazioni) fra i sunniti e gli alauiti, i quali hanno da sempre occupato ruoli di primo piano nell’esercito di al-Assad.
La Primavera araba, o meglio, le “Primavere arabe” rappresentano un processo incompiuto forse proprio perché spontaneo: indubbiamente la democrazia e la libertà delle genti sono valori primari, a lungo calpestati proprio in nome di quegli interessi internazionali ben rappresentati dai vari dittatori utili più alle potenze straniere e che al proprio popolo. Tuttavia, come non è possibile comparare i vari fenomeni (la Primavera araba della Tunisia è decisamente diversa da quella della Libia, a sua volta diversa da quella dell’Egitto e via dicendo): come è possibile cogliere da quanto sta accadendo in Siria, non è possibile che avvengano repentini cambiamenti senza che siano tenuti nella dovuta considerazione gli equilibri e le implicazioni internazionali.