Siria: si va verso il compromesso. Ed è Putin a levare le castagne dal fuoco a Obama

di Enrico Oliari –

lavrov colloqui grandeLa Russia non si sta muovendo solo militarmente in Siria, e la sua “offensiva” diplomatica potrebbe rappresentare la mediazione necessaria ad una soluzione del conflitto siriano, o meglio, dei molti conflitti che sono in corso nel paese mediorientale: oppositori contro al-Assad, Isis contro al-Nusra, curdi, lealisti e oppositori contro Isis, sciiti contro sunniti, sostenitori delle opposizioni (Turchia, Usa, Europa) contro sostenitori di Damasco (Hezbollah libanesi, russi, cinesi e Iran), ma anche Qatar contro Arabia Saudita. Questi ultimi secondo il protocollo ormai consolidato di sbrigare le loro beghe sul territorio degli altri, com’è avvenuto in Egitto.
Sul fatto che la guerra non stia portando da nessuna parte e che quindi serva una soluzione politica sono tutti d’accordo, ed una timida apertura ad un compromesso era già avvenuta in settembre, quando il segretario di Stato Usa John Kerry aveva affermato che “Occorre negoziare, è a questo che noi puntiamo perché il non farlo impedisce alla crisi di terminare. Noi siamo pronti, ma lo è anche al-Assad? Lo è sul serio? E la Russia, è pronta a portarlo al tavolo delle trattative?” (…), e che le  dimissioni di al-Assad “non devono avvenire per forza il giorno tale o il mese talaltro”.
E a far ragionare al-Assad deve esserci davvero riuscito l’alleato Vladimir Putin, il quale, dopo l’incontro di Sochi del 21 ottobre, ha dichiarato che “al-Assad è pronto a dialogare con quelle forze dell’opposizione siriana che si mostreranno disponibili” a unire le forze contro lo Stato Islamico, per cui il governo siriano “deve stabilire contatti”. Ed ancora, “Ad al-Assad ho chiesto: come vi rapportereste al fatto che noi supportassimo milizie di opposizione ma che sono contro l’Is?. E lui ha risposto positivamente. Proviamo ora a passare dalla teoria alla pratica”.
Da quel momento sono seguiti frenetici incontri volti a trovare quel compromesso necessario a dare una svolta alla crisi, o, se si vuole, a trasformare i conflitti siriani in uno solo: tutti contro i gruppi jihadisti.
Il 23 si è tenuto a Vienna l’incontro fra il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov, il segretario di Stato Usa John Kerry e i colleghi di Turchia Mevlut Cavusoglu e di Arabia Saudita Adel al-Jubeir, ed il 25 Lavrov e Kerry si sono sentiti al telefono, colloquio dal quale maturata l’ipotesi di un moderatore esterno per avviare il dialogo fra i lealisti e le opposizioni. “I capi delle diplomazie dei due Paesi – si legge nel comunicato seguito alla telefonata – hanno continuato a discutere le prospettive di una soluzione politica in Siria con la partecipazione delle autorità e dell’opposizione moderata con il sostegno della comunità internazionale, comprese le principali potenze della regione”.
Fino a qualche giorno fa le posizioni erano rigide, con le opposizioni, la Turchia e gli occidentali che erano per la cacciata immediata di al-Assad e del suo apparato, e con la Russia e l’Iran (ma anche l’Iraq) che difendevano politicamente il governo ritenuto legittimo, considerando gli insorti come “terroristi”.
Tuttavia, dal momento che per ogni compromesso tutte le parti devono cedere qualcosa, le posizioni si sono ammorbidite e lo stesso presidente siriano, incontrando una delegazione della Duma, ha parlato di soluzione politica della crisi a seguito della sconfitta dei “terroristi”, termine ora usato per indicare esclusivamente i qaedisti di Jabat al-Nusra, i jihadisti dell’Isis e degli altri gruppi minori di islamisti. Ha inoltre fatto sapere di essere disposto a ricandidarsi per la presidenza “solo se il popolo siriano lo vorrà”.
E’ tuttavia pacifico che non sarebbe potuta verificarsi nessuna ipotesi di compromesso senza l’intervento russo in Siria, il quale ha controbilanciato il peso di Usa, Turchia e occidente, tirandoli di fatto fuori dall’impasse dovuta quei gruppi jihadisti appoggiati e sostenuti in funzione anti al-Assad, salvo poi essere diventati ingovernabili e aggressivi, o, per dirla come il ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif, “un Frankenstein tornato a divorare i suoi creatori”.