di Francesco Giappichini –
“Certe elezioni presidenziali del 2024 potrebbero cambiare il mondo, ma non si svolgono negli Stati Uniti”. Così titola la Cnn (Cable news network) il proprio servizio, dedicato alle elezioni generali a Taiwan del 2024. L’esito delle presidenziali più importanti nella storia dell’”Isola ribelle”, potrebbe essere conosciuto lo stesso mattino del 13 gennaio: un risultato che avrà un impatto globale, e condizionerà direttamente i rapporti non solo tra l’Isola di formosa e Pechino, ma anche tra Cina e Stati Uniti. I sondaggi sono per legge oscurati dal 4 gennaio, e vi è incertezza su chi sarà il nuovo presidente della “Provincia ribelle”, per dirla col Partito Comunista Cinese (Pcc).
È però chiaro come tutte le forze in campo puntino allo status quo: cambiano solo i mezzi per mantenere questo stato di equilibrio, oltre alla cosiddetta narrazione identitaria. Del resto per capire la politica di Taiwan, che è ogni anno più cruciale per gli equilibri mondiali, non sono sufficienti le vecchie formule del diritto internazionale. Ogni principio viene stravolto, e lo dimostra la posizione di Washington, all’insegna della “ambiguità strategica” (“strategic ambiguity”). Andiamo però con ordine. Secondo l’ultimo sondaggio del 3 gennaio, il vicepresidente uscente Lai Ching-te, che Pechino aborrisce e definisce separatista, è in testa col 38,9 per cento.
Questi rappresenta la continuità rispetto alla presidente Tsai Ing-wen, e guida la Coalizione pan-verde (di centro-sinistra), incentrata sul Partito progressista democratico (Ppd). Secondo William Lai, come è noto in occidente, la scelta verterà tra democrazia e autoritarismo. L’obiettivo dichiarato da Lai, difendere lo status quo di Taiwan come entità di fatto indipendente, può essere raggiunto solo rafforzando le Forze armate, e stringendo ancor più i rapporti con gli Stati Uniti. Scarsa invece la fiducia nel dialogo con Pechino: anzi, secondo il Partito democratico progressista (Dpp), una vittoria del dialogante Kuomintang (Kmt) può preludere alla riunificazione con la Cina Popolare.
Beninteso, Lai e il Dpp hanno in passato sostenuto posizioni indipendentiste, che sono state però abbandonate in nome di una diversa sfumatura di status quo: il candidato ha dichiarato che non farà alcun passo verso l’autonomia assoluta, ma seguirà una politica prudente per evitare il conflitto armato. In sintesi, solo da un punto di vista identitario e ideologico, i progressisti esigono l’indipendenza, e respingono il principio noto come “Una sola Cina” (peraltro fatto proprio, sulla carta, anche da Washington). Al secondo posto, col 35,8%, l’ex sindaco di Nuova Taipei, in carica sino a settembre: Ho Yu-ih, secondo i progressisti il “candidato di Pechino” ovvero colui che svenderà Taiwan, rappresenta la Coalizione pan-azzurra di centro-destra, che ruota intorno al Partito nazionalista cinese, o Kmt. Secondo il Kuomintang, il voto consisterà in una scelta tra guerra e pace, come peraltro sostiene Pechino: si declama che una riconferma del Dpp potrebbe condurre a un’azione militare cinese, a causa della sua tradizionale ritrosia al dialogo col Partito comunista. Anche il Kmt punta cioè allo status quo, ma attraverso il dialogo con Pechino, e comunque respingendo il principio “Una Cina, due sistemi”, ossia l’annessione sul modello di Hong Kong. Al terzo posto, più staccato col 22,4%, l’ex sindaco di Taipei, Ko Wen-je: anche il rappresentante del Partito popolare di Taiwan propugna un rafforzamento del dialogo con la Cina.