Tibet chiama Trento: la voglia di un’autonomia. Vera. Parallelismo fra due realtà lontane e vicine

di Enrico Oliari – 

Tibet grandeLa Regione autonoma del Tibet è stata creata ufficialmente il 1 settembre 1965 e comprende solo una parte di quella che un tempo era un’ampia e sovrana nazione. Oggi comprende una città a livello di prefettura, Lhasa, sei prefetture (Nagqu, Qamdo, Nyinchi, Shannan, Xigazê, Ngar), una città a livello di contea (Xigazé) e 71 contee, per un totale di tre milioni di abitanti.

La sua storia è quella che conosciamo anche grazie a memorabili pellicole come “Sette anni in Tibet”, diretto da Jean-Jacques Annaud, o “Kundun”, di Martin Scorsese, ma per comprendere le ragioni di un’autonomia realizzata solo in minima parte è necessario un accenno su quanto accadde in quella parte del mondo negli anni del Secondo dopoguerra.
Il Tibet fu parte della Cina per sette secoli fino al 1911, anno in cui divenne una nazione sovrana a tutti gli effetti. La società tibetana, legata ad antichissime tradizioni ed usanze, era di fatto chiusa al mondo, forte non tanto di un esercito, quanto della morfologia del territorio, che si estende ad una media di 4.900 metri di altitudine (Lhasa 3.650).
Nel 1950 la Cina Popolare di Mao Zedong (Mao tse-tung) decise di riannettere il Tibet ed inviò l’Esercito di liberazione popolare che in breve ebbe la meglio sul mal equipaggiato ed inconsistente esercito tibetano; pochi anni dopo scoppiò una rivolta sedata nel sangue, che costrinse il Dalai Lama, suprema autorità spirituale e temporale, alla fuga in India.
Nel 1965 nacque ufficialmente la Regione Autonoma del Tibet, azione che spaccò il territorio tibetano (che contava 2,5 mln di km. q), buona parte del quale venne assegnato alle province cinesi del Qinghai, del Gansu, del Sichuan e dello Yunnan.
Il governatore, de facto un burattino nelle mani di Pechino, doveva essere, in base agli articoli 111 e 112 della Costituzione della Repubblica Popolare Cinese, tibetano, controllato però dal locale segretario del Partito Comunista Cinese, che tibetano non era.
I fatti di sangue di quegli anni, dovuti in particolare agli eccessi di una Rivoluzione culturale di stampo laicista che si proponeva dall’oggi al domani di assoggettare un popolo amministrato da sempre da una teocrazia, sono quelli di un vero e proprio genocidio, e non solo culturale: 1,2 milioni di tibetani uccisi, 6.254 monasteri distrutti, 100.000 tibetani internati nei campi di lavoro.
La distensione delle epoche successive non ha portato ad un riequilibrio delle forze in campo, tanto che il Dalai Lama ed il governo del Tibet continuano a vivere in esilio, in India.
Pechino inoltre sta cercando di incentivare la colonizzazione del Tibet importandovi cinesi (si pensa che in pochi anni ne arriveranno 40 milioni, su poco più di 6 milioni di tibetani di cui tre nella Regione autonoma) anche grazie alla nuova ferrovia che raggiunge Lhasa;  della reincarnazione del Panchen Lama, individuata dal Dalai Lama nella persona di Gedhun Choekyi, non si ha più notizia dal 1995, come pure della sua famiglia, mentre nel 2007 la Cina ha affermato che tutti gli alti monaci tibetani, come avviene per i vescovi cattolici e per i religiosi delle espressioni di fede,  dovranno essere nominati dal Governo centrale e che il prossimo Dalai Lama, il quindicesimo, dovrà essere ‘eletto’ sotto la supervisione del Panchen Lama scelto da Pechino.
Di tanto in tanto vi sono piccole rivolte, quasi sempre non armate, da parte di gruppi di tibetani, spesso nate in modo spontaneo per chiedere per la propria terra un’autonomia vera, non di facciata, istanza portata avanti anche da Tenzin Gyatso, l’attuale Dalai Lama, premio Nobel per la Pace.
Ed è proprio parlando di montagne e di forte autonomia che viene naturale fare un parallelismo, per quanto vada preso con le pinze, con la realtà del Trentino Alto Adige e forse non è un caso se anche nella nostra regione ha preso piede, ormai da anni, l’Associazione Italia – Tibet, organizzazione che si propone di sostenere il lavoro del Dalai Lama e del suo governo in esilio per il riconoscimento dell’autodeterminazione e dei diritti civili del popolo tibetano.  E lo scorso 11 aprile, per la quarta volta, ha potuto ospitare proprio il Dalai Lama a Trento.
Incontrando la stampa, il leader tibetano ha parlato della pace e della fratellanza come valori universali, ma anche ha spiegato, in merito alle proteste contro la Cina del popolo tibetano che si sono concretizzate anche con l’auto-immolazione di 117 persone dal 2009, che “Non appena avvenne il primo caso di tibetano immolatosi in segno di protesta, ho cercato di mandare messaggi ed inviti a desistere da tali gesti. Sono un sintomo importante di malessere ed io, che vivo al di fuori del Tibet, ho chiesto ai cinesi di prendere provvedimenti. Coloro che si danno fuoco sono persone offese, non ubriaconi. Spesso escono dalle prigioni traumatizzati e persino menomati. Quello tibetano è un popolo di sei milioni di persone che soffrono ed io sono qui per servirli: si tratta di un problema che, come aveva detto lo stesso Deng Xiaoping, non può essere risolto con la forza ed io auspico che questi nuovi leader politici usino la saggezza, non la forza”.
Per comprendere meglio le ragioni di chi invoca un’autonomia vera per il Tibet, abbiamo incontrato Tenzin Khando, donna tibetana che vive e studia a Trento:
– Come si trova, a Trento, una persona tibetana?
Noi tibetani proprio per il nostro bagaglio culturale siamo persone aperte, userei il termine ‘accessibili’, adattabili cioè ad ogni realtà. In Trentino ci troviamo bene, anche perché il territorio si presenta montagnoso, proprio come il nostro Tibet. E lottiamo perché il Tibet ottenga una forte autonomia, sul modello di questa regione. La gente, poi, è molto accogliente e qui abbiamo trovato persone sensibili alla nostra causa. In Trentino siamo in 12, dato abbastanza consistente se si pensa che i tibetani in Italia sono complessivamente 250“.
– Il popolo tibetano, intendo quello che vive in Tibet, lamenta sofferenza, tanto che dal 2009 ben 117 persone si sono immolate dandosi fuoco in segno di protesta nei confronti del l’occupazione cinese…
Noi tibetani non ‘sentiamo’ la causa, noi ‘viviamo’ la causa: anche per questo siamo coscienti di rappresentare il nostro popolo in un paese straniero. Noi sentiamo, non solo capiamo, il gesto di chi ha scelto di immolarsi. Come ha spiegato il Dalai Lama proprio in occasione della sua recente visita qui a Trento, noi non vogliamo le immolazioni, ma è altresì vero che si tratta di un gesto dimostrativo, di un sacrificio che non comporta la violenza verso altri. Sarebbe facile ricorrere ad altre vie, ma chi si immola agisce su se stesso e non su altri: i tibetani non usano mai violenza sugli altri“.
– A Trento vive una comunità cinese: avete contatti con loro o sussistono problemi di natura ideologica?
Non esistono problemi di carattere individuale, tanto che io stessa ho molti amici cinesi che frequentano la mia stessa università, con i quali capita anche di uscire a cena. La comunità cinese si presenta tradizionalmente chiusa, con un pensiero abbastanza omologato, tuttavia i rapporti ‘a tu per tu’ permangono buoni”.
– Tuttavia alla Festa dei Popoli che si è tenuta a Trento nel maggio 2011, i cinesi avevano chiesto di togliere la bandiera tibetana…
“In realtà alcuni giovani cinesi si erano rivolti all’organizzazione per chiedere di togliere dall’insieme delle bandiere il vessillo tibetano perché l’essere ripresi sotto quello avrebbe potuto comportare problemi, ad esempio alle loro famiglie in Cina; la bandiera era stata annodata e noi avevamo manifestato una certa sorpresa. Ora, quell’episodio, è acqua passata e, come dicevo, i rapporti permangono nell’assoluta normalità“.
– Percepisco che anche vivendo a Trento, cioè dall’altra parte del mondo, sente in modo forte la causa tibetana…
I mali della Cina, prima di tutto la corruzione, si sono riversati e si riversano tutt’oggi sul popolo tibetano. Ad esempio, in occasione del recente terremoto che ha sconvolto il Sichuan, finanziamenti destinati alle vittime sono finiti nelle tasche di pochi. Noi tibetani non stiamo chiedendo, come propaganda Pechino, la secessione del Tibet dalla Cina, bensì la realizzazione di un’autonomia vera, forte, dove la lingua e la cultura vengano rispettate… Sul modello del Trentino Alto Adige, per intenderci: il governo tibetano in esilio chiede questo, ma gli anni passano e molti giovani stanno esaurendo la pazienza: regnano il malcontento e la sofferenza“.
Roberto Pinter presiede l’espressione trentina dell’associazione Italia-Tibet:
– Qual’è il significato del vostro attivismo, per un tema che, almeno geograficamente, appare lontano?
Oggi non ci sono più mondi lontani. Il Tibet è stato ed è meta per l’alpinismo e per chi vuole esplorare una terra e una cultura uniche, ma oggi è anche una metafora per il futuro del pianeta la sostenibilità del nostro sviluppo: senza tetto del mondo cosa rimarrà del mondo? La difesa delle minoranze e del pluralismo nel mondo della omologazione e del controllo autoritario e quindi il tema della libertà; la spiritualità in un mondo che misura sui consumi il proprio benessere. Penso che se perde il Tibet perdiamo tutti qualcosa di essenziale”.
– Sia il Trentino che il Tibet sono due realtà autonome: vede fra i due popoli destini paralleli o diversificati?
Non c’è parallelismo anche se il Dalai Lama guarda alla nostra autonomia come una strada per il Tibet e anche se noi abbiamo rilanciato il percorso con il quale siamo arrivati all’autonomia come la storica dimostrazione che si può tutelare una minoranza pur mantenendo i confini nazionali. Il Tibet è autonomo per la Costituzione cinese ma non lo è nella realtà, mentre noi, che non siamo ovviamente paragonabili ad uno stato autonomo qual’era il Tibet, rappresentiamo una frontiera avanzata nel superamento dei conflitti attraverso il riconoscimento della autonomia e delle minoranze. Il Trentino ci ha messo qualche secolo per veder riconosciuti i propri diritti sotto l’Impero e poi dopo il fascismo nella Repubblica italiana, e mi auguro che il Tibet possa realizzare qualcosa di simile anche se sarà dura”.
– Cos’ha significato per voi dell’Associazione Italia-Tibet la recente visita del Dalai Lama, ad un anno dalle sue dimissioni da guida del governo tibetano in esilio?
Ho sempre fatto fatica a distinguere tra i ruoli del Dalai Lama, di guida religiosa, autorità morale, portatore di pace e guida politica e anche se ha passato il potere politico rimane il riferimento per tutti i tibetani. L’abbiamo invitato per non dimenticare la tragedia che si sta consumando in Tibet, per rinnovare la nostra solidarietà e affinché potesse mandare il suo messaggio universale di speranza in un mondo così difficile. Ed è quello che ha fatto, le migliaia di trentini e non solo trentini che sono accorsi al PalaTrento sono usciti con un po’ di speranza in più e spero anche con la voglia di spendersi di più per la causa tibetana che è la causa della libertà, e dunque anche la nostra”.
– A Trento vi è una comunità cinese, fatta da ristoratori e da commercianti: già in passato vi erano state da parte loro contestazioni per la presenza della bandiera tibetana alla Festa dei popoli… Convivenza difficile? Avete avuto altri momenti di attrito?
Devo ammettere che il rilancio del nazionalismo cinese dopo le olimpiadi è stata una pesante sconfitta del dialogo. Ho provato a confrontarmi con i giovani studenti cinesi a Trento che pur avendo accesso a conoscenze non di parte si comportano come zelanti funzionari del partito comunista. Ma devo dire che qualcosa si muove, non tutti la pensano nello stesso modo, qualcuno si pone delle domande sulla verità storica sostenuta dal governo cinese. E’ fondamentale quello che accadrà nella complessa realtà cinese per il futuro dei tibetani, molto di più di quello che non accadrà nella comunità internazionale troppo piegata dagli interessi economici per fare quello che dovrebbe fare, cioè porre unitariamente la questione dei diritti fondamentali di ogni popolo”.
– Può spiegare, brevemente, in cosa consiste l’attività della vostra associazione a livello locale?
Ho avuto la fortuna di accogliere il Dalai Lama per tre giorni in Trentino ancora nel 2001 e di averlo avuto altre tre volte; attorno a queste visite e ai progetti di cooperazione e solidarietà che sono nati si è sviluppata l’attività della associazione. Ci occupiamo inoltre dei rapporti con il governo e il parlamento tibetano in esilio, sosteniamo la comunità tibetana in Trentino e chi chiede asilo politico, raccordiamo i tanti progetti di aiuto umanitario e diffondiamo la conoscenza sulla realtà tibetana ospitando testimoni, promuovendo dibattiti, organizzando mostre culturali e fotografiche e anche ospitando i monaci dei vari monasteri che girano l’Europa per sostenere la loro attività e siamo i referenti per le nostre istituzioni”.