Tibet. I buoni propositi di Strasburgo e la realtà dei rapporti commerciali con la Cina

di Enrico Oliari –

Si è auto-immolato oggi nel Qinghai, una provincia della zona nordoccidentale della Cina, Tamding Thar, un pastore 50enne che ha voluto così protestare contro l’occupazione del Tibet da parte del governo cinese: faceva parte di una tribù tradizionalmente nomade, ma era costretto dai piani di Pechino ad un programma di abitazione in insediamenti permanenti.
E’ il 38.mo tibetano che si è dato fuoco in Cina negli ultimi 3 anni, ma sono oltre 50 coloro che si sono tolti la vita fra le fiamme nella regione del Tibet nell’ultimo anno. Un dato che fa rabbrividire e che si accompagna agli arresti di massa che ancora ci sono nella regione, dove è sufficiente esporre la bandiera con il sole ed i raggi rosso-blu per finire sotto processo.
Il Tibet, per quanto improntato su un sistema feudale (fino agli anni Cinquanta esistevano ancora i servi della gleba), venne gradualmente invaso dall’esercito cinese a partire dal 1949, fino alla grande rivolta del 1959, in cui vennero uccisi 70.000 tibetani.
Il vasto territorio montagnoso (la capitale, Lhasa, è situata a 3.595 m/slm) venne smembrato ed affidato alle province cinesi del Qinghai, del Gansu, del Sichuan e dello Yunnan, mentre l’area sud-occidentale divenne, dal 1964, la Regione Autonoma del Tibet, una provincia a statuto speciale.
La Rivoluzione culturale dei giovani cinesi, che identificavano come controrivoluzionaria ogni idea contraria alla loro, si tradusse con la distruzione, nel 1976, di moltissimi monasteri e l’attuazione di nuovi atti di violenza contro la popolazione.
Nel 2008 sono scoppiate in diverse città proteste contro il genocidio culturale in atto, duramente represse dalle autorità cinesi ed attualmente il governo tibetano si trova in esilio a Dharamsala, in India.
Con una mozione approvata oggi all’Assemblea di Strasburgo, il Parlamento europeo ha impegnato l’alto rappresentante della Politica estera dell’Ue, Cathrine Ashton, a nominare ”un coordinatore speciale per la promozione dei diritti umani in Tibet” che ”riferisca regolarmente della situazione e fornisca assistenza ai rifugiati tibetani”.
Inoltre viene richiesto alla Ashton di affrontare il tema Tibet ”in ogni incontro con rappresentanti della Repubblica popolare cinese” affinché venga riconosciuta ”una significativa autonomia al territorio storico del Tibet” e quindi l’”accesso senza restrizioni per la stampa e le organizzazioni umanitarie”.
La Risoluzione del Parlamento europeo ha il peso dell’aria fritta e rifritta, dal momento che l’intero pianeta è già sensibilizzato sulla questione tibetana da tempo e lo stesso Dalai Lama, guida spirituale e capo del governo in esilio nonché premio Nobel per la Pace, non ha mai cessato di lottare per i diritti del suo popolo.
La reazione europea nei confronti dei soprusi, presunti o veri, commessi dai regimi di vari paesi, ha comportato la rottura delle relazioni diplomatiche ed ancor più dei rapporti commerciali, mentre con la Cina non si è mai andati al di là di qualche buon proposito o di un voto annoiato da parte degli europarlamentari.
Alla base di questo non vi è il fatto che, per quanto sia ormai anacronistico, la Cina rimane uno dei 5 paesi ad avere il diritto di veto presso il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, bensì la bilancia commerciale: nel 2010 il volume di affari fra la Cina ed i paesi dell’Unione europea è stato di 363.190 mln di euro, con importazioni in Ue di beni per un valore complessivo di 235.666 mln ed esportazioni per 127.524 milioni di euro.
L’Europa dei 27 è quindi il primo partner commerciale della Cina, cosa che, di fatto, fa passare la questione tibetana in secondo piano: basterebbe avere con la Cina lo stesso atteggiamento adottato per la Siria, per costringere Pechino a ripensare l’autonomia ed i diritti del popolo del Tibet.