Ucraina. Dalle icone russe alla autocefalia della Chiesa ortodossa: il conflitto è anche religioso

di Lorenzo Pallavicini –

La decisione di Putin di riportare la celebre icona della Trinità del pittore Andrej Rublev nella sua sede originale, il monastero della Trinità di San Sergio sito in Sergiev Posad, luogo sacro della Chiesa ortodossa russa, nonostante la contrarietà degli amministratori della galleria Tretjakov dove risiede il dipinto da decenni, preoccupati per la sua conservazione, ha riportato sulla scena l’importanza delle icone nel potere politico russo.
Putin si accinge a compiere un gesto importante per la fede ortodossa, incrementando così la centralità del patriarcato moscovita e garantendosi un sostegno della chiesa ancora più saldo di quanto non sia già in essere, oltre a ricalcare le gesta degli zar, che hanno sempre avallato le credenze popolari riguardanti i poteri taumaturgici delle icone, in particolare per ottenere la protezione divina nelle battaglie contro i nemici.
Le credenze in Russia sui poteri speciali delle icone nascono nei periodi in cui il territorio allora noto come Rus di Kiev era soggetto ad invasioni di popoli stranieri, in particolare dei mongoli dell’Orda d’Oro che saccheggiavano tali aree in cui i complessi fortificati, noti come cremlino, al cui interno vi erano i monasteri più importanti, erano spesso gli unici baluardi contro tali invasioni.
Le icone assumevano la carica di una particolare protezione divina, necessaria per le battaglie contro quei popoli per il cristianesimo ortodosso russo che intendeva raccogliere l’eredità di Roma e Costantinopoli e fare di Mosca la terza Roma, una idea ancora oggi presente nella società russa ed alla base delle politiche congiunte del clero e della amministrazione politica, in cui il conflitto in Ucraina è visto anche come uno scontro di valori e civiltà.
La tradizione delle icone ha resistito persino all’ateismo di stato del regime comunista che vedeva nel clero ortodosso un nemico, vista la tradizionale collusione del potere religioso con quello temporale degli zar. Durante il periodo della invasione nazista Stalin, nonostante nel 1938 avesse varato il piano quinquennale dell’ateismo, decise di riaprire al culto molte chiese, compresi il monastero delle Grotte di Kiev e il monastero di San Sergio a Zagorsk, e consentire la venerazione delle icone da parte dei fedeli.
La storia del potere taumaturgico delle icone russe si ripercorre anche oggi. Il sostegno del patriarcato di Mosca al conflitto in Ucraina è determinante per non tramutare l’enorme numero di perdite di giovani russi in aperto malcontento della popolazione contro il regime russo. Kirill I interpreta pienamente il ruolo di sostenitore del conflitto anche per una delle ragioni sottaciute della guerra, la separazione della chiesa ortodossa ucraina da quella russa.
Tale scisma, avvenuto nel 2018 a seguito della decisione del sinodo del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli favorevole alle istanze ucraine di autocefalia, è stato traumatico per il patriarcato moscovita ed ha segnato ancora di più il solco di definitiva lontananza di Kiev da Mosca, iniziato nel 2014 dopo i fatti dell’Euro Maidan.
La scissione dalla chiesa moscovita rappresenta, da parte di Kiev, un secco no alle politiche di russificazione sull’Ucraina e fu voluta il prima persona dall’allora presidente ucraino Poroshenko, che si appellò al patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I al fine di ottenere la concessione dell’autocefalia per la Chiesa ortodossa ucraina.
A conflitto in corso, si è ulteriormente rafforzata la separazione delle due chiese, con anche il Consiglio del Patriarcato della Chiesa Ortodossa ucraina del Patriarcato di Mosca (Uoc), nel 2018 non facente parte delle due chiese ucraine “separatiste”, che si è separato dai russi, vista la adesione di Kirill I alla guerra.
Il governo ucraino è intervenuto in prima persona sugli affari religiosi, sia con le perquisizioni dei servizi di sicurezza in diversi monasteri, sia con gli arresti e gli sgomberi ad aprile di diversi monaci del monastero delle Grotte, accusati di essere filorussi, compreso il metropolita del complesso religioso, Pavlo Lebid, noto in Ucraina sia per il suo lussuoso stile di vita sia per l’essere stato deputato nel filorusso partito delle Regioni dell’ex presidente Yanukovich.
La diatriba religiosa appare un punto importante nel conflitto tra Russia ed Ucraina, con il ruolo del Vaticano che, forse, potrebbe giocare un ruolo essendo tale ambito più compatibile rispetto ad un dialogo con le autorità civili russe ed ucraine, che in questa fase intendono confrontarsi dal punto di vista militare, ambiente a cui papa Francesco è estraneo.
La possibile mediazione del Vaticano potrebbe apparire interessante se riuscisse a fare breccia ammorbidendo la posizione di Kirill I sulla guerra e provare a far mancare il terreno a Putin per puntellare la propaganda russa sulla necessità di una vittoria contro i “neonazisti ucraini” e la “decadenza occidentale sui valori morali e spirituali”. Senza un pieno sostegno della chiesa ortodossa, il regime russo avrebbe serie difficoltà nel sostenere lo sforzo bellico, con notevoli conseguenze a livello di consenso interno.
Tuttavia, appare difficile che il pontefice riesca nella missione poichè la fede ortodossa russa è legata a doppio filo alla politica e il Cremlino ha accontentato il patriarcato di Mosca sia economicamente sia con decisioni su valori tradizionali come le leggi anti propaganda LGBT varate nel 2012 o la repressione del gruppo musicale Pussy Riot, riconoscendo, pur nella pluralità di confessioni religiose in Russia, tra cui milioni di cittadini di fede musulmana, il netto primato del patriarcato di Mosca in campo spirituale.