Usa. L’accordo con la Cina sui dazi? Solo propaganda

Ed a noi europei conviene prenderne atto: il mondo sta cambiando.

di Dario Rivolta *

Qualcuno ha detto che l’accordo raggiunto il 15 Gennaio scorso tra Cina e USA è la tipica storia della montagna che partorisce un topolino. Se si osserva bene la situazione, forse più di un topolino si potrebbe parlare di una formica.
Dal punto di vista della comunicazione indubbiamente la firma è stata magnificata e presentata come un grande successo, pur aggiungendo trattarsi di una “fase 1” seguita da una futura, completa e definitiva “fase 2”.
Anche fingendo di prendere per buono che l’oggetto del contendere tra i due Stati sia soltanto di carattere commerciale, i limiti di quest’accordo sono evidenti. Innanzitutto si è solamente congelata la situazione che riguarda i rispettivi dazi. Quelli già in vigore da entrambe le parti restano e, per quanto riguarda i prodotti cinesi, continuano a coinvolgere 250 miliardi di dollari importati negli Stati Uniti. Specularmente restano in vigore le tariffe cinesi sui prodotti americani. Il bando all’esportazione di alta tecnologia americana verso la Cina sussiste e i dazi americani del 15% che dovevano entrare in vigore il 15 dicembre sul valore di 160 miliardi di prodotti non sono cancellati ma solo sospesi. Trump grida vittoria per aver ottenuto un impegno di Pechino ad acquistare prodotti americani per 200 miliardi di dollari nei prossimi due anni ma, da quanto si sa, non ci sono dettagli su quando, come e quali specifici prodotti rientreranno tra questi acquisti. In realtà le categorie merceologiche sarebbero state definite, ma in maniera così vaga in merito ai tempi e alle modalità da restare discrezionali. Proprio a causa del punto di domanda che rimane senza risposta, i dazi doganali resteranno congelati per almeno dieci mesi, durante i quali sarà verificato il rispetto degli impegni cinesi per l’acquisto.
In realtà più di un vero accordo si tratta di una mossa propagandistica di Trump ai fini delle prossime elezioni e da parte cinese la volontà di dimostrare al mondo, sempre più sospettoso nei suoi confronti, un qualche segno della propria duttilità. La conferma arriva dal fatto che c’è una totale mancanza di definizione di cosa conterrà la “fase 2”. Nessuna parola è stata scritta e nemmeno pronunciata in merito a quale siano gli obiettivi che la parti si pongono per arrivare a chiudere definitivamente il contenzioso aperto ufficialmente da Trump diciannove mesi fa.
Sempre dando per scontato, pur senza crederci, che si tratti solamente di una guerra commerciale e cioè la volontà statunitense di riequilibrare la bilancia commerciale, occorre notare che il deficit americano verso la Cina ed anche verso il resto del mondo non ne ha ancora tratto nessun beneficio: nel 2016 era di 544 miliardi di dollari l’anno e all’ottobre scorso già segnava un meno 691 miliardi. Ci si aspettava che i produttori cinesi che esportavano verso gli USA fossero costretti ad abbassare i prezzi (e quindi ridurre i loro profitti) dovendosi accollare il costo daziario aggiuntivo, e invece si deve notare che i prezzi in partenza dai porti cinesi sono rimasti invariati e sono i consumatori americani a dover pagare l’extra. In merito al bando che resta in vigore sull’esportazione di prodotti di alta tecnologia, un funzionario economico del consolato generale olandese a Shanghai ha calcolato che il fatturato dei produttori americani di semi conduttori in Cina corrisponde a tre volte quello delle loro vendite negli Stati Uniti ed esattamente: 79,3 miliardi contro 28,1. Ciliegina sulla torta: Huawei ha cominciato a investire pesantemente in ricerca per sopperire autonomamente al venir meno dei fornitori americani mentre il Senato statunitense ha dovuto decidere lo stanziamento di un miliardo di dollari per favorire la crescita di produttori di casa che possono fare concorrenza a Huawei. Se la guerra aveva uno scopo puramente commerciale, si può affermare che sia stata un fallimento.
Il motivo per è lecito ritenere che, accordo o non accordo, la questione sia tutt’altro che chiusa sta nel fatto che non crediamo che almeno nei confronti della Cina il vero scopo sia di ottenere un più ampio accesso al mercato cinese, e contemporaneamente di proteggere i produttori nostrani. L’obiettivo vero di Trump e della politica americana è di contenere la crescita della Cina ad ogni costo. In altre parole, gli Stati Uniti stanno cercando di garantirsi la supremazia politica, commerciale e militare che, è sotto gli occhi di tutti, i cinesi stanno insidiando.
Qualche decina di anni fa uno studioso inglese, tale Fred Hirsch, scrisse un libro che s’intitolava “I limiti sociali allo sviluppo” (The social limits to growth). Con convincenti e dettagliate argomentazioni dimostrava ciò che tutti intuiamo e cioè che il ricco esiste perché c’è il povero, che è impossibile essere tutti ricchi, che ricchezza e povertà sono concetti relativi e che ognuno misura la propria condizione in relazione a quella degli altri. In questa logica è difficile poter criticare gli americani per la loro volontà di mantenere il più a lungo possibile una supremazia che hanno saputo conquistare, ma è altrettanto difficile negare il diritto ai cinesi di volerne prendere il posto.
Così stando le cose, per noi europei si tratta di decidere da che parte stare o almeno cercare di ricavare da questo confronto il massimo dei benefici. Questioni culturali e la storia recente ci dicono che siamo sicuramente più vicini a Washington che a Pechino, ma Trump sembra voler fare di tutto per convincerci del contrario. Da grossier qual è, anziché blandirci per continuare a esercitare su di noi quel ruolo dominante che oggettivamente gli Stati Uniti hanno nei nostri confronti, ha dichiarato anche a noi una guerra commerciale e non perde occasione per umiliarci. I dazi introdotti sulle nostre merci e le continue minacce di aumentarne quantità e valore non ci invogliano certo a guardare con simpatia oltreoceano. Il suo plaudire a una possibile disgregazione dell’Unione Europea, il suo sostegno a paesi come la Polonia e i Baltici in funzione antieuropea, il suo sottoporci alle vergognose “sanzioni indirette” stanno a dimostrare un atteggiamento più da “padrone coloniale” che da alleato. Mentre ci impone un atteggiamento per noi penalizzante di rottura economica e politica con Russia e Iran, si permette di condurre un attacco omicida contro un alto esponente iraniano senza nemmeno avere la cortesia, come sarebbe nella correttezza diplomatica tra alleati, di informarci almeno dieci minuti prima. Poiché non si trattava di un qualunque attacco contro un qualunque terrorista, ma di un atto che consapevolmente potrebbe portare a una totale destabilizzazione del Medio Oriente, il minimo era se non concordare almeno informare gli alleati con pochi minuti di anticipo. Certamente un preavviso così breve non avrebbe nemmeno potuto mettere a rischio il buon esito dell’operazione.
A ben guardare il peggio del comportamento del presidente degli Stati Uniti contro di noi probabilmente non è ancora arrivato e quindi dovremmo tenere gli occhi ben aperti. Il suo preannunciare un grande accordo commerciale con la Gran Bretagna, appena essa dovesse concretizzare la propria uscita dalla Ue, potrebbe essere un cavallo di Troia che destabilizzerà anche il nostro mercato continentale. Se infatti l’Unione Europea dovesse continuare a mantenere i porti aperti (e quindi salvaguardare gli accordi commerciali) alle merci in arrivo dalla Gran Bretagna, i prodotti americani, ad esempio quelli come la carne agli ormoni, potrebbero arrivare da noi proprio via GB e sarà difficile impedirlo. Lo stesso vale per tutti i prodotti geneticamente modificati contro cui nacque l’opposizione più pesante quando ancora si trattava di realizzare il TTIP (Trans Atlantic Trade and Investment Partnership).
Non sappiamo né se Trump sarà riconfermato a novembre né se chi dovesse eventualmente sostituirlo deciderà un approccio diverso. Ciò che è certo è che l’ascesa della Cina, il riacquistato ruolo mediterraneo e medio orientale della Russia e le voci sempre più forti contro gli aspetti negativi della globalizzazione sono fattori che dimostrano che molte cose nel mondo stanno cambiando. E’ dunque necessario che anche gli europei ne prendano atto e comincino a ripensare il proprio ruolo, il proprio posizionamento internazionale, magari anche le proprie alleanze. Sempre che abbiano l’intelligenza di volerlo fare tutti assieme.

Donald Trump.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.