Vietnam. Tanta voglia d’America

di Francesco Giappichini –

Dopo il 18mo vertice del Gruppo dei venti (G20), celebratosi a New Delhi, il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, è volato ad Hanoi, in Vietnam. Quasi un obbligo: dal ’95, quando furono normalizzate le relazioni tra i due Paesi, ogni capo di stato nordamericano ha visitato la nazione asiatica. Diciamolo subito: nella prospettiva della Casa Bianca, il viaggio è stato un successo. Sotto il profilo economico, si sono portate le relazioni bilaterali a un livello più alto, a un’«ampio partenariato strategico», che coinvolgerà in primis il mercato dei semiconduttori. Tanto che lo stesso Biden ha predetto «l’inizio di un’era di cooperazione ancora maggiore» con Hanoi.
L’idea di fondo è chiara: gli Stati Uniti hanno bisogno anche del Viet-Nam, considerato uno dei baricentri dell’industria mondiale. E non solo per ridurre la dipendenza economica da Pechino, e far fronte alle alterazioni delle catene di approvvigionamento globali, ma anche per la fornitura di semiconduttori e terre rare, di cui il Paese asiatico ha grandi riserve. E poi c’erano gli obiettivi strategici, sintetizzabili nel leitmotiv della politica estera a stelle e strisce: il contenimento della Cina e del suo espansionismo territoriale e militare. E anche su questo fronte Washington, com’era prevedibile, ha incontrato una controparte collaborativa.
Veniamo così ai vietnamiti, che sovente hanno inscenato un raffinato balletto geopolitico, per mantenere una sostanziale equidistanza tra Stati Uniti, Cina e Russia. E tuttavia in quest’occasione Nguyễn Phú Trọng, segretario generale del Partito comunista del Vietnam dall’11, e uomo forte del regime, ha portato a termine una svolta strategica: come peraltro già si presagiva durante la preparazione dell’incontro Biden – Nguyễn, ha avvicinato il proprio Paese all’orbita diplomatica nordamericana. Del resto l’«ampio partenariato strategico» rappresenta il più elevato livello nelle relazioni diplomatiche, che abbia mai applicato il Viet Nam; che, appunto, l’ha finora riservato solo a Russia, India, Corea del Sud e Cina.
All’origine del cambio di rotta, le rivendicazioni di Pechino nel Mar Cinese Meridionale: le operazioni della flotta cinese sono fonte permanente di tensione, nell’intera regione. Beninteso, dietro la mossa di Hanoi vi sono anche esigenze economiche. Dalla volontà di contrastare il rallentamento della crescita (per il ’23 si stima un poco esaltante +5,8%), alla necessità di riposizionarsi innanzi alle crisi delle supply chain. E poi si vuole rafforzare un già robusto interscambio commerciale: tra il ’19 e il ’22 l’export verso gli States è quasi raddoppiato, superando i 127 miliardi di dollari; e oggi il 29% delle esportazioni vola negli Stati uniti, a fronte del 24% del ’10. Mentre le importazioni di beni statunitensi, nell’ultimo ventennio, sono cresciute di venti volte. Si profila dunque un rapporto privilegiato con l’occidente, che tuttavia incontrerà tre ostacoli ben definiti. In primis, la compressione di diritti umani e libertà fondamentali, non ultime quelle politiche e religiose, da parte di un regime marcatamente autoritario. E poi la volontà di non interrompere la decennale cooperazione militare con Mosca; di qui le astensioni, in sede di Nazioni unite, quando si è trattato di condannare la guerra in Ucraina. Last but not least, la necessità e la volontà di preservare i legami commerciali col Dragone, peraltro sempre più floridi: oggi vola in Cina un quinto dell’export vietnamita, contro il 9% del ’10.