a cura di Gianluca Vivacqua –
L’Europa è un’espressione burocratica, ha detto qualcuno, ma senza un’anima. Nata come unione economica, a partire dalla condivisione del carbone e dell’acciaio, l’Ue ha finito col diventare il governo delle economie degli Stati europei che la compongono, ma la sua idea di koiné continentale, con buona pace degli idealisti alla Spinelli e degli eurorisorgimentalisti, non è andata oltre l’istituzione di una moneta unica. Eppure questo non ha impedito che all’interno di essa si riproponessero i protagonismi di vecchi aspiranti all’egemonia in Europa. Francia e Germania oggi guidano di fatto l’Ue, continuando una lunga tradizione di competizione. Ma in generale è tutta l’Europa settentrionale a essere il centro dell’Unione, mentre il Mediterraneo diventa sempre più periferia. Con buona pace, lo ripetiamo, dei profeti dell’Europa unita, tanti dei quali italiani: abbiamo citato Spinelli, non possiamo dimenticare un certo Mazzini. Altri tempi? E quali nuovi tempi si preparano sotto il cielo blustellato dell’Ue? Ne ragioniamo con Ugo Villani, professore emerito di Diritto internazionale dell’Università “Aldo Moro” di Bari, già presidente della Società Italiana di Diritto internazionale e di Diritto dell’Unione Europea, e già ordinario di Diritto dell’Unione Europea nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università “La Sapienza” di Roma, e di Diritto internazionale nella LUISS “Guido Carli” di Roma. È autore del manuale Istituzioni di diritto dell’Unione Europea, edito da Cacucci, giunto nel 2024 alla settima edizione, e condirettore della rivista e della collana “Studi sull’integrazione europea”.
– Professore, che futuro per l’Europa? Quanto durerà l’egemonia franco-tedesca all’interno dell’Unione, riproposizione di un vecchio leitmotiv della storia europea moderna?
“La stretta collaborazione tra la Francia e la Germania segna, invero, la stessa nascita dell’integrazione europea. Questa, com’è noto, ha inizio con la celebre dichiarazione del Ministro degli esteri francese Robert Schuman del 9 maggio 1950, il cui significato storico è testimoniato anche dalla scelta di tale data quale “Festa dell’Europa”. Essa conteneva la proposta, rivolta anzitutto alla Germania, nonché agli altri Stati europei che volessero aderirvi, di mettere in comune, sotto un’Alta autorità, l’insieme della produzione di carbone e acciaio, assicurandone, nel contempo, la libera circolazione. Le risorse che in passato erano state frequente terreno di scontro e di conflitto tra i due Stati (si pensi alle vicende tra le due guerre mondiali per il controllo dei bacini carboniferi e industriali della Ruhr e della Saar) diventavano così strumento d’incontro e di condivisione, creando una solidarietà di fatto che avrebbe reso una qualsiasi guerra tra la Francia e la Germania “non solo impensabile, ma materialmente impossibile”. La proposta francese fu accolta immediatamente dal cancelliere tedesco Adenauer, dall’Italia, guidata da un altro “padre dell’Europa”, Alcide De Gasperi, nonché dall’Olanda, dal Belgio e dal Lussemburgo, dando vita alla prima Comunità europea, quella del carbone e dell’acciaio (CECA). Da allora molte cose sono cambiate, l’Unione europea è costituita da ben 27 Stati membri e il potere di Francia e Germania appare in qualche misura “diluito” in questo così ampio contesto; ma, sebbene parlare di una vera egemonia possa apparire eccessivo, deve riconoscersi che, quando tali Stati sono d’accordo, è tuttora difficile contrastare la loro iniziativa. A mio parere, peraltro, non ci si dovrebbe porre in un’ottica meramente “nazionalistica”. Sebbene gli interessi e le concezioni nazionali dei singoli Stati membri non possano (e non debbano) essere trascurati, questa visione dovrebbe cedere il passo a una considerazione complessiva della costruzione europea, nella quale si realizzi una unione sempre più stretta e solidale tra i popoli degli Stati membri. Senza negare le identità e i bisogni nazionali, dovrebbe comunque prevalere l’interesse comune dell’Europa e dei suoi cittadini. La capacità di operare in questa direzione dipende anche dai risultati delle elezioni del Parlamento europeo; non solo da chi siano i partiti “vincitori”, ma anche dal livello di preparazione e di competenza dei membri del Parlamento, che ne accresce l’autorevolezza nei rapporti con le altre istituzioni. Certo, il futuro dell’Unione è legato anche alla composizione della Commissione, al suo “gradimento” da parte del Parlamento europeo e alle iniziative che assumerà. L’esperienza della presidenza von der Leyen non mi pare positiva: la stessa von der Leyen fu quasi imposta dai governi al Parlamento europeo, che la elesse, infatti, con una maggioranza striminzita. Quanto alle scelte “politiche” della Commissione uscente, è stato osservato che essa, partita da un programma di transizione ecologica, sempre più ha indirizzato l’Unione europea a una “transizione militare”, invischiandola pericolosamente in un conflitto con la Russia. Purtroppo le elezioni del Parlamento europeo si sono svolte sulla base di un dibattito politico quasi inesistente nel quale, al massimo, si è contrapposta una visione di “Stati Uniti d’Europa” alle pulsioni populiste e nazionaliste. Si tratta, a mio parere, di un’alternativa alquanto superficiale e artificiosa, mentre le elezioni sono state vissute essenzialmente in chiave nazionale, come occasione di conferme, di rivalse tra i partiti e di regolamenti di conto tra alleati (di governo o di opposizione). Il dibattito ha solo sfiorato i grandi temi politici relativi al benessere e al futuro dei cittadini e al ruolo che l’Unione dovrebbe svolgere sulla scena mondiale, particolarmente riguardo alle emergenze del riscaldamento globale e della pace”.
– Può spiegarci cosa significa esattamente l’espressione “Europa dei popoli” e quanto è lontana dalla Buro-Europa attuale?
“L’espressione “Europa dei popoli” non sempre è usata nello stesso significato. Essa, nel passato, è stata impiegata persino per designare una coalizione di partiti politici candidata alle elezioni del Parlamento europeo dal 1987 al 2009. Né può escludersi il rischio di assimilare l’Europa dei popoli a tendenze o movimenti populisti, intesi in senso deteriore come animati da spinte demagogiche (talvolta accomunati a orientamenti fortemente nazionalistici). Il significato più autentico che ritengo debba riconoscersi all’espressione è quello che evoca una costruzione nella quale i protagonisti, e i beneficiari, dell’integrazione europea siano i cittadini. Essa si contrappone all’“Europa delle nazioni” (o degli Stati), formula cara, per esempio, al Presidente francese Charles De Gaulle. L’“Europa dei popoli”, così intesa, rappresenta un’importante evoluzione del progetto europeo originario; progetto che, pur teso a un obiettivo di natura politica, qual è la costruzione di una pace durevole tra Stati contrapposti, in passato, in guerre sanguinose, si realizzava mediante un meccanismo essenzialmente economico e commerciale: il mercato comune (o interno). Questo, com’è noto, è costituito da uno spazio senza frontiere interne nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali. Il riferimento alle persone, peraltro, era limitato a quelle economicamente attive, cioè ai lavoratoti subordinati e a quelli autonomi. Con il trattato di Maastricht del 1992 prende l’avvio una sorta di mutazione genetica della (all’epoca) Comunità europea, che si manifesta, anzitutto, nella cittadinanza europea, la quale consegue automaticamente alla cittadinanza di uno Stato membro. Essa è uno status giuridico che si compone di una pluralità di diritti, come quello di libera circolazione, l’elettorato attivo e passivo al Parlamento europeo, quello alle elezioni amministrative in uno Stato membro di residenza diverso dallo Stato di cittadinanza ecc.; diritti che spettano a tutti i cittadini in quanto tali, a prescindere dall’essere o meno dei “fattori di produzione”. La suddetta mutazione genetica si esprime, inoltre, nella individuazione di alcuni valori sui quali l’Unione si fonda, oggi contemplati dall’art. 2 del Trattato sull’Unione europea, consistenti nel rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e dei diritti umani. Almeno due di questi valori chiamano in causa il ruolo della persona. Anzitutto il rispetto dei diritti umani, i quali sono specificamente elencati nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 (ma, all’epoca, priva di valore obbligatorio), la quale, grazie al Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, in vigore dal 1° dicembre 2009, ha acquistato la medesima forza giuridicamente vincolante dei Trattati istitutivi dell’Unione. In secondo luogo, i principi democratici, che trovano attuazione, nel quadro di una democrazia rappresentativa, anzitutto nel Parlamento europeo, nel quale i popoli europei trovano una diretta rappresentanza. Ma il Trattato di Lisbona prevede anche strumenti di democrazia partecipativa (o deliberativa), che tendono a dare voce, dal basso, alla “società civile”, nelle sue varie articolazioni, nei rapporti con le istituzioni europee, in specie con la Commissione. Senza sottovalutare il peso dei governi, che resta essenziale nel Consiglio e nel Consiglio europeo, i popoli degli Stati membri, o il “popolo europeo”, come forse potrebbe dirsi, sia pure con un po’ di enfasi, assumono in maniera crescente una posizione di protagonisti nell’Unione. L’auspicio è che i loro rappresentanti nel Parlamento europeo abbiano la volontà politica e la competenza necessaria per indirizzare le determinazioni dell’Unione europea verso il bene comune dei cittadini; che essi, quindi, riescano a correggere e invertire quelle tendenze burocratiche che, sovente ammantate da una retorica europeistica, sembrano emergere a livello europeo, specie nell’azione della istituzione considerata “tecnica”, la Commissione, la quale in realtà, anche a seguito del nuovo procedimento di nomina previsto dal Trattato di Lisbona, sempre più appare connotata da una natura politica”.
– In uno scenario geopolitico prossimo venturo, la graduatoria delle potenze globali potrebbe essere questa: 1. Usa 2. Cina 3. Ue? L’Europa è condannata a inseguire le grandi potenze o potrebbe riuscire a imporsi come forza di interposizione tra esse?
“Se consideriamo l’attuale politica estera dell’Unione Europea, essa, specie nelle gravi crisi internazionali della guerra in Ucraina e del conflitto in Palestina, risulta priva di autonomia e in larga parte appiattita su quella degli Stati Uniti. L’Unione avrebbe potuto svolgere un proprio ruolo per cercare di favorire la cessazione delle ostilità in Ucraina e una soluzione pacifica del contenzioso con la Russia. Essa invece non ha mai neppure tentato di proporre una qualsiasi soluzione, ma si è sempre più coinvolta nella guerra con la continua fornitura di armi all’Ucraina, utilizzando lo strumento denominato European Peace Facility, che, per onestà e trasparenza, dovrebbe piuttosto chiamarsi European War Facility! E l’opzione esclusivamente militare è perseguita con estrema determinazione e irresponsabilità da alcuni Stati europei, come la Francia, dove il Presidente Macron invoca un coinvolgimento diretto nella guerra inviando soldati dei Paesi europei nel territorio ucraino. Nella crisi aperta con i sanguinosi, spietati atti terroristici di Hamas del 7 ottobre 2023 e la conseguente repressione di Israele anche contro la popolazione civile palestinese non sempre i Paesi europei sono riusciti a raggiungere una posizione unitaria. Ciò emerge sia dalle divergenze nel voto al momento dell’adozione di risoluzioni dell’Assemblea generale dell’ONU, sia dalle decisioni assunte dai singoli Stati membri riguardo al riconoscimento della Palestina. In altri termini, si ha spesso la sensazione che una politica estera unitaria dell’Unione Europea… non esista affatto. E ciò evidentemente impedisce che l’Europa assuma un ruolo significativo sulla scena internazionale. Del resto bisogna ricordare che, in base al diritto dell’Unione risultante dal vigente Trattato di Lisbona, le decisioni e gli atti in materia di politica estera e di sicurezza comune (PESC) sono presi dal Consiglio europeo e dal Consiglio, formati dai rappresentanti dei governi degli Stati membri, all’unanimità; ed è evidente che non è facile raggiungere l’unanimità tra 27 Stati. Tale sistema di votazione è prescritto anche per le decisioni relative alla politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC), la quale è integrata nella PESC e ne costituisce la componente militare. Da più parti, pertanto, si invoca una modifica dell’attuale normativa, con il passaggio a decisioni a maggioranza qualificata nel Consiglio europeo e nel Consiglio, così come la realizzazione di una vera politica europea unitaria in materia di difesa. Tali proposte, pur condivisibili, in principio, riguardo alla instaurazione della maggioranza quale regola di votazione, non tengono conto a mio parere di un altro aspetto estremamente problematico: la PESC, attualmente, è nelle mani esclusive dei governi europei, mentre il Parlamento ne è emarginato e il controllo della Corte di giustizia è molto limitato. Una riforma della PESC dovrebbe assicurare sia il controllo democratico del Parlamento europeo che quello giudiziario della Corte di giustizia. In mancanza, la sola votazione a maggioranza rischierebbe di vincolare i singoli Stati membri a decisioni prese, in sostanza, dai governi degli altri Stati membri, in maniera verticistica e in contrasto con i principi democratici e persino, eventualmente, con il diritto dell’Unione e quello internazionale. Un discorso analogo va fatto per la PSDC, dove uno Stato membro potrebbe essere trascinato addirittura in un conflitto in base a decisioni non democratiche e persino illegali. In materia militare, inoltre, resta irrisolto il rapporto di una ipotetica difesa comune europea con la NATO. Nei ricorrenti discorsi su una auspicata difesa europea autonoma, invero, si ribadisce costantemente che essa dovrebbe essere complementare alla NATO. Dati i rapporti di forza con la NATO, e specie con gli Stati Uniti, il rischio che tale complementarietà si risolva in una subordinazione dell’Unione europea non può affatto escludersi. In definitiva, è mia opinione che le riforme siano necessarie, ma debbano sempre garantire rispetto della democrazia e della legalità europea e internazionale; e debbano sempre fondarsi sulla vocazione storica dell’Unione europea a promuovere costantemente la pace, sia al proprio interno che nel mondo”.