Israele. E dopo?

di Dario Rivolta * –

E’ in corso l’accordo tra Israele e Hamas per lo scambio tra cinquanta ostaggi, donne e bambini, detenuti dai palestinesi e centocinquanta, sempre donne e bambini, detenuti nelle carceri israeliane. Nel momento dello scambio e per un ridotto numero di giorni (3? 5?) dovrebbero interrompersi anche le ostilità. Nonostante Hamas cerchi di guadagnare tempo e rilasci gli ostaggi poco per volta, che tale scambio possa completarsi è possibile e verosimile ma che durante la “pausa” prevista non venga sparato un solo colpo è un po’ più incerto.
Coloro che da quando è iniziata l’offensiva israeliana continuano a criticare l’azione di Tsahal accusandolo di reazione sproporzionata e di uccidere una enorme quantità di civili innocenti, dimenticano tre cose. La prima è che è la stessa Hamas che fa di tutto per usare gli abitanti nella Striscia di Gaza come scudi umani. Il loro obiettivo è chiaro: più civili, magari bambini, vengono uccisi, più la propaganda sarà efficace nell’aizzare i sentimenti delle opinioni pubbliche mondiali contro gli israeliani. La seconda è che, se l’obiettivo da parte dell’esercito è di mettere i terroristi in condizioni di non più nuocere, le postazioni militari da cui partivano e partono i missili contro il territorio israeliano devono essere tutte individuate e neutralizzate. Poiché, come è stato dimostrato, sono state volutamente inframmischiate con le abitazioni civili, con gli ospedali, con le scuole e con le moschee, è impossibile per qualunque esercito fare altrimenti che distruggere quelle strutture, pur correndo malauguratamente il rischio di colpire anche vittime innocenti.
Considerato quanto successo il 7 ottobre, è impossibile immaginare un qualunque governo a Tel Aviv che possa decidere di interrompere le ostilità senza aver raggiunta la sicurezza che fatti come quelli e il continuato lancio di razzi sulle città israeliano non possano più ripetersi. Purtroppo, per ottenere quel risultato l’operazione militare dovrà continuare.
Detto ed ammesso tutto ciò, occorre tuttavia domandarsi cosa potrebbe succedere dopo la possibile (ma non certo facile) eliminazione (o almeno il ridimensionamento) delle capacità offensive di Hamas. Dopo i bombardamenti in atto la gran parte delle case della Striscia sarà andata distrutta e anche chi oggi è riuscito a fuggire e volesse ritornare non si sa dove potrà andare e come potrà viverci. Oltre a ciò ci sarà il problema di tutte quelle famiglie che hanno perso nel conflitto i loro cari. Quali saranno i loro sentimenti? Con chi se la prenderanno?
Lo Arab Barometer, con il Palestinian Center for Policy e Survey Research con il supporto del National Endowment for Democracy hanno condotto tra il 28 Settembre e l’8 Ottobre (quindi prima dei tragici fatti all’origine dell’attuale crisi) una indagine su cosa pensassero i palestinesi a proposito di Hamas, dell’Amministrazione Palestinese, di Fatah ecc. L’indagine ha interpellato 790 abitanti dei Territori e 399 di Gaza (le interviste in Gaza, casualmente, furono completate il 6 Ottobre). La maggior parte degli interpellati abitanti in Gaza e cioè il 44% risposero di non avere “nessuna fiducia“ nelle autorità di Hamas. Il 23% disse di “non avere grande fiducia”. Solamente il 29% dei Gaziani affermò di avere “una grande fiducia” o “abbastanza fiducia” nel proprio governo. Inoltre, il 72% rispose che la corruzione in quel governo era “grande” (34%) o “media” (38%).
Alla domanda se in caso di nuove elezioni da tenersi in Gaza con la scelta come “capo” tra Ismail Haniyeh, leader di Hamas, Mahmoud Abbas, presidente dell’Autorità Palestinese e Marwan Barghouti, membro di Fatah imprigionato in Israele, solo il 24% dei rispondenti disse che avrebbe votato per Haniyeh mentre Abbas godrebbe solo del 12% e Barghouti del 32%. Importante sottolineare che il 30% degli intervistati annuncia di non voler partecipare a quelle possibili elezioni. Un’altra domanda sottoposta ai Gaziani riguardava che opinioni avessero dell’Autorità Palestinese. Il 52% rispondeva trattarsi di un fattore negativo sulle spalle del popolo palestinese e il 67% avrebbe comunque desiderato le dimissioni di Abbas. La maggior parte degli abitanti di Gaza attribuiva i problemi per il reperimento di cibo nella striscia a ragioni interne piuttosto che al blocco imposto da Israele ed Egitto sin dal 2005. Va notato che quel blocco è diventato sempre più pesante dopo che Hamas ha preso il potere a Gaza nel 2007. Non è un caso che il 78% degli intervistati ritenga che la difficoltà nel procurarsi il cibo sia molto grave mentre solo il 5% sostiene che la disponibilità di cibo non sia affatto un problema. È così evidente che le difficoltà per la vita a Gaza esistevano già prima dell’attuale conflitto ma il fatto che oggi Israele abbia bloccato acqua, combustibile, elettricità e ogni bene di consumo non può che rendere ulteriormente drammatica una situazione che già causava numerose sofferenze alla maggior parte della popolazione.
Andando ancora più a fondo nell’indagine si scopre che, per gli abitanti di Gaza, Hamas sarebbe scelto solamente dal 27% dei votanti come partito politico mentre Fatah otterrebbe il 30%. Solo due anni prima, nel 2021, la popolarità di Hamas raggiungeva il 34% e i dati messi a confronto dimostrano che la maggioranza dei cittadini della Striscia stia diventando sempre più insoddisfatta della loro leadership. Un altro dato molto importante è che la maggioranza degli intervistati, non condivide l’obiettivo di Hamas che lo stato di Israele debba essere eliminato. La maggior parte, il 54%, si dichiara a favore della soluzione dei Due Stati, così come previsto dagli accordi di Oslo del 1993.
Per quanto riguarda le opinioni espresse dagli abitanti dei Territori (ove le condizioni di vita sono comunque migliori di quelle della Striscia) il consenso verso i propri governanti, e cioè l’Autorità Palestinese, è molto basso, più o meno come a Gaza. Infatti, solo il 19% ha dichiarato “fiducia” nel governo guidato da Fatah. Ciò non significa, tuttavia, che tra quei palestinesi esista un maggiore supporto verso Hamas che raggiunge, in realtà, solo circa il 30%, esattamente come a Gaza. In merito alla personalità dei leader, un particolare dissenso riguarda Mahmoud Abbas, solo l’11% potrebbe scegliere Haniyeh mentre, anche qui, Barghouti è ancora al primo posto con il 35% dell’apprezzamento.
Tutti questi dati riguardano i sentimenti dei palestinesi espressi prima del 7 ottobre e dalla reazione israeliana. Oggi non c’è da stupirsi nell’immaginare che, sia a Gaza che nei Territori, le opinioni possano essere cambiate e non certo a favore di Israele. È però probabile che né Abbas né Haniyeh possano aver guadagnato in popolarità mentre il contrario può essere successo per Barghouti.
Nessuno riesce oggi ad immaginare quale possa essere la situazione una volta che le ostilità dovessero cessare. Una cosa però è certa: se prima del misfatto e della conseguente reazione una soluzione al “problema palestinese” si mostrava estremamente complicata, oggi, a causa della radicalizzazione dei sentimenti in entrambe le popolazioni israeliana e palestinese, essa sembra essere divenuta impossibile. Perfino un politico israeliano considerato moderato come il presidente Herzog è arrivato ad affermare che “Non esistono gaziani innocenti…”.
È comprensibile che la diplomazia internazionale abbia ora resuscitata l’ipotesi dei Due Stati e, in queste circostanze, non si riesce davvero ad immaginare niente di meglio. Tuttavia, se guardiamo con vero realismo alla situazione non possiamo nasconderci che i problemi alla attuazione di questa ipotesi, già cresciuti dopo il ’93 con (tra l’altro) l’enorme numero di nuovi insediamenti israeliani nei Territori, sono divenuti ancora maggiori.
Con Hamas, nata con la dichiarata intenzione di “far sparire” Israele (obiettivo poi mitigato ma mai negato) ogni negoziazione è sempre stata impossibile, ma non si creda che solo Hamas o solo qualche altro palestinese auspicasse la “eliminazione” degli “altri. Anche tra gli israeliani esisteva, ed esiste, un consistente numero di persone che desidera che la terra di quell’area geografica, tutta, sia solo “loro”. A pensarla così non sono solo i fanatici religiosi ortodossi con la folle mania della Grande Israele, ma vi sono anche dei laici nazionalisti che non credono che non ammettono nemmeno che esista un “problema palestinese”. Per tutti costoro l’unica soluzione è liberarsi totalmente, magari cacciandoli ovunque sia nel mondo, di 2 milioni e mezzo di palestinesi di Gaza, dei tre milioni che ancora “occupano” i Territori e, forse, anche dei 2 milioni di palestinesi che sono cittadini israeliani. È certo, anche dall’altra parte, che molti palestinesi amerebbero svegliarsi una mattina e vedere che tutti gli ebrei se ne sono andati.
Supponiamo ora che, finito il conflitto, la maggioranza di estrema destra di Netanyahu sia costretta ad abbandonare il potere (molto probabile) e che a Tel Aviv prenda piede una nuova coalizione più disponibile a ragionare con i palestinesi. Cosa potrà fare il nuovo governo nei confronti di tutti quei coloni che hanno illegalmente costruito le proprie città fortificate e la propria vita nel Territori strappando la terra ai palestinesi? Per favorire una possibile soluzione dei Due Stati occorrerebbe eliminare le colonie, o almeno ridurne il numero. Come si potrà fare? E Chi lo farà? Il nuovo governo dovrà usare la forza e magari usare l’esercito?
Ecco allora un altro punto molto complicato: i componenti dell’attuale esercito.
La composizione di Tsahal oggi è molto diversa da quella che combatté le guerre precedenti. La maggior parte dei soldati non arriva dai centri culturalmente più sviluppati come Tel Aviv e Haifa. Sempre più numerosi sono gli abitanti delle periferie o delle stesse colonie e molti di loro nutrono profondi sentimenti religiosi. Costoro non sono solo religiosi in quanto ebrei ma, tanti di loro, sono passati attraverso seminari religiosi (yeshivot) gestiti da rabbini che hanno visioni politiche estreme. Credono nel diritto di Israele di avere tutta la terra di Israele, anche se la loro idea dei “giusti” confini non è ben identificata. Sicuramente, vi includono anche Gaza, i Territori e, magari, una parte del Libano e dalla Giordania. A questi sentimenti, provati da una buona parte dei militari attuali va aggiunto il senso di umiliazione e di vergogna dall’aver subito ciò che è accaduto il 7 Ottobre e dal tempo che è intercorso prima che una reazione potesse manifestarsi.
Blinken, che sta facendo tutto quanto gli è possibile per, contemporaneamente, rassicurare Israele ed impedire un allargamento del conflitto chiedendo moderazione a Tel Aviv, ha lanciato l’ipotesi che, alla fine dell’ostilità, la gestione di Gaza possa essere assegnata all’Autorità Palestinese ma, a parte il rifiuto di Abbas condizionato dalla realizzazione dei Due Stati, abbiamo già visto come, né lui personalmente né Fatah, godano di alcuna credibilità nella Striscia. L’ideale, nel caso specifico, sarebbe, almeno per un certo tempo, una gestione internazionale terza. Tuttavia, Israele non sembra disponibile ad accettare questa ipotesi.
In merito alla possibilità che l’Europa possa giocare un ruolo importante sulla questione è meglio stendere un velo pietoso.
Contare sulla collaborazione degli altri Stati arabi non porta lontano perché, in realtà, nonostante le manifestazioni di piazza solidali con i palestinesi e le dichiarazioni roboanti dei governi, nessuna capitale araba è veramente interessata al futuro dei palestinesi e tutti capiscono perfettamente che è per loro molto più conveniente avere una intesa con Tel Aviv piuttosto che lasciarsi invischiare in una diatriba che per loro sarebbe solo penalizzante. L’unica cosa che assolutamente vogliono impedire è che ci sia una diaspora dei palestinesi verso il loro territorio, anche perché molti di costoro porterebbero con sé l’adesione alla Fratellanza Mussulmana, cosa che ogni governa arabo aborre. La dimostrazione di ciò sta nel tanto pubblicizzato incontro recente di tutti i Paesi arabi e musulmani durante il quale ognuno si è sprecato nel condannare Israele ma l’ipotesi di sottoporre quel Paese a sanzioni è stata bocciata.
Cosa può succedere dunque? Palestinesi e israeliani continueranno a macellarsi a vicenda o finiranno di farlo? Capiranno finalmente che, poiché nessuno dei due riuscirà a far sparire l’altro gruppo e che entrambi dovranno continuare a vivere dove sono ora, saranno obbligati per forza di cose a trovare un modo di vivere insieme, o almeno vicini?
È difficile immaginare adesso come ciò potrà accadere, ma non esistono altre soluzioni.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.