Brexit o non Brexit

di Giovanni Ciprotti

brexit grandeLa Brexit è stata tra i temi discussi al recente G20 di Shanghai. Le preoccupazioni di David Cameron per l’esito del referendum sul quale il premier britannico si giocherà parte del suo futuro politico si sono saldate a quelle degli altri leader mondiali per lo shock che potrebbe sferzare i mercati finanziari nel caso in cui la maggioranza dei cittadini britannici si esprimesse per il recupero pieno e totale della propria sovranità nazionale.
Da qui a giugno il referendum sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea potrebbe essere una delle questioni più dibattute, quanto meno nel Vecchio continente. Politici, politologhi, economisti e imprenditori ci spiegheranno quali potrebbero essere i vantaggi e gli svantaggi derivanti dalla permanenza di Londra nella Ue, o al contrario gli effetti positivi e negativi dell’abbandono della Unione. Man mano che si avvicinerà la data della consultazione, probabilmente anche la opinione pubblica europea si interesserà alla diatriba e magari si formeranno due schieramenti contrapposti, a favore o contro la Brexit. Tutto finirà con lo spoglio delle schede e l’ufficializzazione della volontà degli elettori britannici. La campagna elettorale lascerà poi il posto alle analisi post-voto con la conseguente valutazione degli effetti del risultato. Inevitabilmente ci sarà chi recriminerà perché le ragioni della fazione sconfitta sono state sostenute troppo tiepidamente dai governi o dai partiti più rappresentativi. Riprenderà vigore lo scontro verbale tra formazioni europeiste e anti-europeiste, ciascuna delle quali tenterà di strumentalizzare l’esito del referendum per dimostrare la valenza dell’idea di una Europa politica o al contrario il fallimento del processo di integrazione. Alla fine ciascuno troverà il modo di autocelebrare la propria quota di ragione, ma a perdere sarà soprattutto l’Europa. E non in funzione del risultato del referendum.
L’Unione Europea ha già perso ed ha rinunciato al rilancio del processo di integrazione avviato con il Manifesto di Ventotene nel momento in cui ha accettato di conferire alla Gran Bretagna uno status speciale motivato dalla necessità di scongiurare la sua uscita dalla Unione. Così facendo si è creato un pericoloso precedente per ogni possibile futura rivendicazione di autonomia, di qualsiasi entità e su qualsivoglia settore, che ciascuno degli attuali membri della Ue dovesse avanzare d’ora in poi. Come potrebbe infatti essere rigettata, domani, l’eventuale richiesta di deroga di uno degli Stati membri rispetto all’autorità della BCE sul diritto di battere moneta? O magari per una eccezione sui vincoli che regolano gli incentivi alle imprese? Oppure una richiesta per la piena autonomia sulle politiche per l’agricoltura? Ogni Stato membro potrebbe in teoria minacciare di abbandonare l’Unione soltanto per riprendersi un frammento di sovranità precedentemente ceduta a Bruxelles.
Il processo di integrazione europea non è stato sempre lineare e ci ha abituati all’alternanza tra periodi nei quali più efficace è stata l’azione di rafforzamento dell’Unione e altri in cui hanno prevalso le ragioni e gli interessi dei singoli Stati nazionali.
Uno Stato federale si fonda sulla ridistribuzione di poteri tra un governo centrale e i diversi governi locali. Si tratta di un equilibrio niente affatto semplice da raggiungere e ciascuna realtà federata deve decidere qual’è il compromesso che considera ottimale. Quale che sia il criterio di ripartizione dei poteri tra i due livelli, centrale e locale, l’architettura istituzionale risultante non può però sopportare che le entità statali federate siano destinatarie di porzioni di sovranità diversificata. Per ciascuna quota di sovranità, tutti gli Stati membri devono avere un egual grado di competenza, al limite nullo se il potere è attribuito in modo esclusivo al livello centrale.
Il riconoscimento dello status speciale alla Gran Bretagna rende quest’ultima diversa dalle altre entità statali che fanno parte della Unione. La pone su un piano intermedio tra quello sovranazionale e quelli nazionali. Anziché operare perché in un futuro speriamo prossimo ci sia uniformità tra i poteri attribuiti agli Stati membri, si è deciso di procedere nella direzione opposta. Alle preesistenti differenziazioni all’interno della Unione – si pensi a titolo di esempio alla adozione della moneta unica, che unica non è – se n’è introdotta una in più.
Da molto tempo l’obiettivo di costruire gli Stati Uniti d’Europa sembra scomparso dalla agenda politica europea e non trova più partiti che lo facciano proprio. Prevale l’approccio pragmatico, la politica dei piccoli passi. Tra gli anni Novanta del secolo scorso e i primi anni Duemila, l’euforia del post-Guerra fredda indusse a gonfiare le frontiere dell’Unione Europea accogliendo realtà nazionali che fino a pochi anni prima avevano sperimentato gli effetti del “socialismo reale” e le cui strutture politiche, sociali ed economiche erano sensibilmente diverse da quelle dell’Europa “dei dodici”. Ci si è spinti verso est e verso lo stretto dei Dardanelli e oggi, chiudendo gli occhi su quello che accade a Istanbul, si sta lavorando per l’ingresso della Turchia nell’Europa politica.
Se prima della caduta del Muro era difficile, per i membri della Comunità Europea, tracciare un percorso condiviso che avrebbe potuto portare alla nascita di uno stato federale europeo, il tumultuoso allargamento ad est ha anticipato il possibile rinnovamento delle istituzioni comunitarie ed ha contribuito a rendere più impervio il cammino verso gli Stati Uniti d’Europa.
Qualche mese fa il ministro degli esteri italiano Gentiloni aveva rilanciato l’idea di una Europa a due livelli, o meglio “a due cerchi concentrici”, per riprendere le sue parole. Né allora né successivamente è stato spiegato quale legame ci sarebbe potuto o dovuto essere tra gli Stati del primo cerchio, tra quelli appartenenti al secondo cerchio e tra i due gruppi di Stati così formati.
Ormai nei circoli politici europei non si discute più dell’obiettivo a cui tendere per l’Europa del futuro. Sembrano tutti concordi nel riconoscere che i singoli Stati europei, da soli, rischiano di divenire politicamente ed economicamente ininfluenti sul grande scacchiere mondiale e quindi sarebbe opportuno giungere ad una forma statuale aggregata, ma poi la sintesi per una soluzione non segue l’analisi.
La storia ci ricorda che in passato le nazioni si sono unite mediante alleanze di tipo militare o commerciale fondate su una specifica esigenza comune e solitamente per un tempo limitato oppure si sono date una struttura che poteva essere confederale, se le nazioni intendevano cedere una quota minima di sovranità nazionale, o federale, se l’intento era di costruire una entità più coesa.
Dal Trattato per la Comunità europea del Carbone e dell’Acciaio del 1951 alla istituzione dell’Unione Europea nel 1993 l’Europa ha percorso un lungo e fruttuoso cammino di integrazione sia sul piano economico sia sul piano politico. Il punto di arrivo potrebbe essere un assetto federale, ma è necessario almeno evitare passi a ritroso. Si desideri un’Europa politica confederale, federale o di altro tipo, la futura architettura istituzionale europea dovrà poggiare su una Carta fondamentale che indicherà la norma, la regola accettata ed applicata allo stesso modo da tutti gli Stati membri. E nessuna regola efficace può essere costruita come somma di eccezioni.