Cina. Proseguono tensioni con Taiwan: gli scenari

di Francesco Giappichini

“E’ stata rilevata la presenza di 13 velivoli e sette unità navali dell’Esercito popolare di liberazione. Le Forze armate di Taiwan hanno monitorato la situazione”. Il messaggio è stato postato in queste ore su Twitter dal ministro della Difesa di Taiwan, e sta lì a dimostrare quanto le tensioni, lungo i 200 chilometri dello Stretto di Taiwan, siano in crescita. Uno scenario che si ripresenta, sebbene in queste ore il segretario di Stato statunitense, Antony Blinken, sia in visita a Pechino. E in queste settimane, con l’avvicinarsi delle presidenziali sull’isola di Formosa, molti centri studi hanno affrontato uno degli interrogativi più delicati dell’analisi geopolitica contemporanea.
L’invasione dell'”isola ribelle” è inevitabile? Parte degli osservatori è convinta che l’attacco avrà luogo entro il 2027. Secondo l’intelligence statunitense, il presidente cinese Xi Jinping avrebbe chiesto all’Esercito popolare di liberazione di prepararsi all’aggressione entro quell’anno: nel 2027 si celebrerà il centenario della costituzione dell’esercito, e avrà termine il terzo mandato del capo dello stato. Un termine cui peraltro, nel 2021, fece riferimento l’ammiraglio Philip Scot Davidson, all’epoca comandante del Comando statunitense dell’Indo Pacifico. L’ipotesi pare avvalorata dai progressi militari di Pechino, Marina in primis: secondo un rapporto del Pentagono del 2022, l’esercito cinese sarebbe capace d’imporre la strategia “anti-access/area denial (A2/AD)”.
I cinesi, consci di non poter prevalere sugli Stati Uniti in una guerra convenzionale, cercherebbero di creare un’area d’interdizione aeronavale, nota in gergo come “bolla”. Potrebbero cioè impedire l’arrivo dei contingenti sul campo di battaglia (A2), o in subordine, limitarne la libertà di manovra (potendoli colpire), se lo raggiungessero (AD). Ovvero una sorta di risposta asimmetrica alla superiorità statunitense.
Tuttavia per altri analisti l’invasione non sarebbe ineluttabile. Anzi, sarebbe improbabile. In primis gli Stati Uniti, di là dalla loro posizione di “ambiguità strategica” e dalla vaghezza dei documenti ufficiali, difficilmente resterebbero indifferenti innanzi all’aggressione di un “grande alleato non Nato”.
E un loro intervento, secondo il Center for strategic and international studies (Csis) e altri autorevoli think tank, sarebbe alla lunga decisivo. E poi l’operazione richiederebbe enormi preparativi, che Pechino non potrebbe tenere segreti, con buona pace dell’effetto sorpresa. Vanno poi segnalati gli ingenti costi dell’operazione, che difficilmente le autorità comuniste potrebbero giustificare, dopo la paralisi economica legata alla pandemia. Inoltre sembra illogico che Xi Jinping dia il via a una guerra, dopo che sulla scena internazionale ha saputo crearsi l’immagine di pacificatore. Si pensi alla riconciliazione Iran – Arabia Saudita di aprile e al piano di pace, pur modesto, per il conflitto ucraino. Sembra anche irrealistico che la Cina, Ucraina docet, possa dare il là a un conflitto che non è certa di vincere. E’ vero che l’esercito del dragone riduce pian piano il gap con l’esercito Usa, peraltro con investimenti inferiori alla metà. Tuttavia le sue capacità operative lasciano ancora dubbi: l’esercito cinese non ha esperienza in combattimento e non ha partecipato a un conflitto bellico vero e proprio dalla Guerra sino-vietnamita del ’79. Né va trascurata la soddisfacente preparazione dell’esercito di Taiwan, dotato di equipaggiamento occidentale.