Crimini Usa in Afghanistan: tolto il visto alla procuratrice della Corte penale internazionale

di Enrico Oliari

Con una nota l’ufficio del procuratore generale degli Usa, William Pelham Barr, ha confermato la decisione di revocare al procuratore capo della Corte penale internazionale (Cpi), la giurista gambiana Fatou Bensouda, il visto per l’ingresso negli Stati Uniti. Sottolineando che tale misura non riguarda “i suoi doveri alle Nazioni Unite, comprese le riunioni periodiche al Consiglio di sicurezza dell’Onu”, l’ufficio del procuratore generale Usa ha riportato che alla base di tale decisione vi sono le indagini avviate dalla Cpi sui presunti crimini di guerra commessi da militari e da civili statunitensi nel corso del conflitto afgano.
Già un mese fa il segretario di Stato Mike Pompeo aveva annunciato provvedimenti nei confronti dei funzionari della Cpi impegnati nelle indagini sui presunti crimini commessi in Afghanistan, ed aveva ipotizzato anche sanzioni economiche, anche perché gli Usa non aderiscono alla Corte penale internazionale.
La Coalition for the International Criminal Court, rete che raccoglie organizzazioni di 150 Paesi, ha “deplorato fermamente questo passo dell’amministrazione Trump e le imprecisioni presentate dal Segretario di Stato nella sua dichiarazione” e di aver dichiarato illegittime le azioni della Cpi.
Per la Coalizione la Cpi è “l’unica corte internazionale permanente col mandato di investigare e perseguire singoli individui per i crimini internazionali di genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra e crimine di aggressione”. “La posizione dell’amministrazione Trump – continua la nota – solleva serie preoccupazioni tra la società civile, gli stati e le altre parti in causa che cercano di stabilire le responsabilità per i crimini internazionali, ovunque essi avvengano”.
Risale al 2017 l’iniziativa della procuratrice Fatou Bensouda di avviare indagini sugli eventuali crimini commessi dagli statunitensi in Afghanistan durante il conflitto. Un segreto di pulcinella questo, dal momento che in più occasioni i massimi media d’oltreoceano hanno riportato di villaggi distrutti, civili uccisi in modo sommario, ma soprattutto di individui detenuti e torturati nelle prigioni della Cia e di altri crimini commessi spesso per ottenere informazioni.
Nel 2017 Bensouda aveva riportato un rapporto preliminare che dava “ragionevoli basi” per procedere contro militari e agenti statunitensi che avrebbero compiuto “torture e altri crimini di guerra” nel corso del conflitto in Afghanistan.
Seguendo l’iter la procuratrice aveva avuto il via libera prima dalla Camera preliminare e poi dai giudici a sentire testimoni e sospetti sia in Afghanistan che negli Usa, a ricostruire i casi accedendo anche ad informazioni riservate, per quanto ne’ i talebani ne’ gli Usa aderissero alla Cpi. Diversa la situazione per quanto riguarda le informazioni della polizia e dell’Nds (servizi segreti) dell’Afghanistan, paese che ha aderito alla Cpi il 1 marzo 2003.
Il rapporto preliminare citava casi di “tortura, trattamento crudele, mortificazione della dignità personale, stupro” avvenuti nelle prigioni Usa dell’Afghanistan “principalmente nel periodo 2003-2004, anche se presumibilmente sarebbero continuati, in alcuni casi, sino al 2014”, anno in cui i prigionieri sono passati sotto la giurisdizione delle autorità di Kabul. Il rapporto riportava anche di sospetti casi di talebani torturati da agenti o militari Usa nelle prigioni delle basi dislocate in altri paesi come la Romania, la Lituania e la Polonia.
L’altolà dell’amministrazione Trump a Bensouda e quindi alla Cpi blocca di fatto le indagini, toglie a molte vittime il diritto alla giustizia ed istituisce una sorta di licenza di torturare per gli agenti e i militari statunitensi. Ed ammonisce la Corte a non indagare su un altro fascicolo ritenuto ben più pesante di quello afgano: i crimini e gli abusi commessi in Iraq.