Detenuti all’estero, parla l’associazione

di Francesco Giappichini

Proprio nelle settimane in cui il tema degli italiani reclusi all’estero è tornato all’attenzione dei media, è uscita la nuova edizione del libro “Prigionieri dimenticati. Detenzione oltre confine e nostrana – tra anomalie e diritti negati”, di Katia Anedda e Federico Vespa. Quest’ultimo è un noto giornalista radiofonico, il primo dei due figli del popolare giornalista Bruno Vespa e di Augusta Iannini, ex magistrata. Mentre Anedda presiede l’organizzazione non lucrativa di utilità sociale (onlus) “Prigionieri del silenzio”, l’associazione che «si occupa concretamente della tutela dei diritti umani degli italiani detenuti all’estero». Un’entità che la Anedda ha fondato, e non poteva nascere senza il suo impulso.

Il libro è altresì arricchito dalla prefazione dell’ambasciatore Giulio Terzi di Sant’Agata, già ministro degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale, che adesso presiede la commissione Affari europei del Senato della Repubblica. La pubblicazione innanzitutto riporta i dati dell’Annuario statistico della Farnesina, pubblicato nel novembre ’22 e aggiornato per quel che ci riguarda al dicembre ’21: «nel dicembre 2021, gli italiani detenuti all’estero erano 2.058 del totale, 1.526 si trovavano nell’Unione Europea, 120 nei Paesi dell’Europa extra EU, 232 nelle Americhe (quasi il 50% in meno del 2013), 33 nel Mediterraneo e in Medio Oriente, 13 nell’Africa sub-sahariana e 54 in Asia e Oceania. È interessante notare come dalla prima versione di questo testo (2016 per dati del 2013) i numeri siano diminuiti in modo rilevante (3.422 Italiani detenuti all’estero nel 2013) in tutti continenti. In Europa il record dei detenuti italiani all’estero continua ad aggiudicarselo la Germania, la quale ancora alla fine del 2021 nelle sue carceri ospita 713 italiani. Segue la Francia che, con 230 detenuti italiani, supera la Spagna che ne conta 229».

Tuttavia Aldo Di Giacomo, vice segretario generale Osapp (Organizzazione sindacale autonoma di Polizia penitenziaria), riferisce che nel «2023 il numero è salito oltre i 2.600 (i dati in nostro possesso aggiornati al 31 gennaio 2024 ci dicono che sono 2663)». E più in generale è notorio che buona parte dei fermi giudiziari all’estero è gestita informalmente dalle autorità consolari italiane: non è quindi comunicata alla Farnesina, e non viene contemplata nelle statistiche ufficiali. La lettura di detto Annuario è comunque interessante. Se ne ricava ad esempio che in un’area delicata come le Americhe la situazione più critica è in Brasile: fra i reclusi in attesa di giudizio, i condannati e quelli in attesa di estradizione, si raggiunge quota 33, superandosi così i 31 connazionali privati della libertà negli Stati Uniti.

Seguono Argentina e Repubblica dominicana con, rispettivamente, 26 e 24 reclusi. Ancor più formativa però, ça va sans dire, è la lettura del libro. Che offre mille spunti, che vanno dalla disumanità delle carceri venezuelane, sino alla vicenda del bancario Simone Renda, purtroppo deceduto, la quale ricorda per molti aspetti il cosiddetto «caso Regeni».

Per ogni approfondimento, rimandiamo quindi all’intervista rilasciataci da Anedda, che da quasi un ventennio, come una pasionaria, s’impegna in questa missione per gli altri.

– A chi consiglierebbe la nuova edizione del suo libro “Prigionieri dimenticati”? Crediamo che la sua lettura non sia importante solo per i familiari degli oltre duemila connazionali reclusi all’estero.
«Il libro racconta delle storie vere e l’epilogo di alcune di esse; e si sofferma anche sul contesto dei Paesi in cui si svolgono queste vicende. Si tratta di una lettura istruttiva per qualsiasi pubblico: per i giovani e gli adulti che viaggiano per il mondo, e per le persone che rimangono nel proprio Paese. Magari acquisiranno la consapevolezza che anche una piccola azione può giovare a sé stessi e alla società. E che molto spesso, al di là dei singoli casi, le apparenze possono ingannare».

– L’associazione che presiede, “Prigionieri del silenzio”, ha come obiettivo la tutela dei diritti umani degli italiani detenuti all’estero. Quali sono le sfide più impegnative che l’ente si trova ad affrontare?
«In primis, si cerca di far capire come il dramma dei detenuti italiani all’estero sia una questione che può riguardare tutti. Anche perché non registriamo significative distinzioni in quanto a ceto sociale o genere: chiunque può ritrovarsi nelle maglie della giustizia oltre confine. Personalmente, reputo anzitutto necessario limitare tutte quelle sofferenze che discendono solo dall’indifferenza. Poi naturalmente è necessario sia rivedere gli accordi in vigore, che ci impegnano con altri Paesi, sia stipularne altri che siano veramente efficaci».

– Al di là dei casi mediatici, giudica soddisfacente l’assistenza che, in genere, le nostre autorità diplomatiche forniscono ai detenuti italiani all’estero? Del resto, stando ai rumors, certe ambasciate di altri Paesi si mostrano, in questi casi, molto più solerti.
«Nelle sedi diplomatiche e consolari operano delle persone, al di là di eventuali direttive provenienti dalla politica, o dei contesti sociali in cui ci si trova ad operare. Insomma l’una è diversa dall’altra; e poi molto dipende da quanto vengono stimolate a fare, e soprattutto a ben operare».

– In quali aree del mondo si segnalano le maggiori criticità, sotto il profilo delle condizioni carcerarie? Immaginiamo che a passarsela peggio, siano i concittadini rinchiusi nelle prigioni infernali del Sud globale.
«Ogni Paese ha le sue caratteristiche e ogni penitenziario è diverso dall’altro. Ci sono condizioni disumane anche in molte prigioni europee, soprattutto nei Paesi dell’Est, e poi sicuramente il Sud America vive situazioni sconcertanti. E tuttavia anche negli Stati Uniti, come descritto nel libro, si rilevano gravi criticità».

– E dove invece predominano i processi kafkiani e le odissee giudiziarie più paradossali?
«Sicuramente negli Stati Uniti, almeno nei casi in cui l’accusa, qualsiasi essa sia, venga mossa da cittadini statunitensi. E i casi più clamorosi si registrano quando la presunta parte lesa è rappresentata da donne statunitensi: nel Paese nordamericano sono innumerevoli le accuse di violenza sessuale, per cui è riconosciuta un’indennità alle supposte vittime, che poi risultano insussistenti. La legge in alcuni Stati americani prevede per le vittime di crimine sessuale un indennizzo pecuniario mensile, assicurazione medica, sostegno per i figli minori e altri benefici. Beninteso, se vi è la certezza del reato – e mi creda, con la tecnologia odierna non è difficile stabilirlo – queste forme di risarcimento sono sacrosante. Tuttavia le false accuse rappresentano una seconda violenza verso le reali vittime del reato: le false vittime privano degli aiuti necessari le donne che hanno subito violenza veramente. Poi ci sono Paesi del Sud-Est asiatico oppure arabi, ove si sono verificati accadimenti veramente surreali. E il nostro libro cerca di descriverne alcuni tra i più significativi».