Nagorno Karabakh. L’ascia del dittatore affilata dalla Turchia e Israele

di Grigor Ghazaryan

Qualche giorno fa il presidente azero Ilham Aliyev ha ricevuto un’ascia da Hulusi Akar, presidente della Commissione di Difesa nazionale del Parlamento ed ex ministro della Turchia. Nel contesto delle nuove minacce all’Armenia da parte dei due stati neo-ottomanisti, questo oggetto appare come simbolo guerrafondaio che chiama alla “decapitazione” della democrazia armena dell’Artsakh (Nagorno Karabakh), realizzata tra l’altro mediante uccisioni (in molti casi extra-giudiziarie) di armeni durante la guerra del 2020; allo stesso tempo, quel simbolo fa ritornare ai capitoli precedenti della storia turca-ottomana fatti di terrore antiarmeno, di aggressioni e conquiste delle terre dell’Armenia storica, a partire dagli anni del primo genocidio del 20mp e fino alla legalizzazione e glorificazione dei crimini contro gli armeni già nel 21mo secolo. Quest’ultimo capitolo è stato ufficialmente inaugurato in Azerbaijan con il caso del militare Ramil Safarov, il quale, avendo assassinato con un’ascia il pari grado armeno Gurgen Margaryan durante un corso del programma “Partenariato per la pace” della Nato nel 2004, venne condannato a Budapest, e in seguito all’estradizione ricevette in patria diverse onorificenze e venne proclamato perfino “eroe nazionale dell’Azerbaigian”.
Chi sta dietro all’imminente “rielezione”?
Nel paese autocratico, il quale si è guadagnato il titolo di “partner affidabile” dell’Ue amministrando il transito del gas russo verso i paesi europei, si attende ora la ri-elezione di Aliyev. Lo sostengono anche gli altri “candidati” dedicando le risorse della loro campagna alla glorificazione unanime del presidente in carica: uno spettacolo rarissimo nella storia delle elezioni presidenziali. Nel frattempo il regime del dittatore petrolifero fa scomparire qualsiasi oppositore. Così è scomparso recentemente l’attivista e blogger Arzu Sayadoğlu, in seguito all’arresto di Aziz Orujov, caporedattore di Kanal 13 Television, e di un attivista religioso, Murad Abdullayev.
Va ricordato qui uno degli ultimi post sulla pagina FB di Sayadoğlu, pubblicato pochi giorni prima della sua scomparsa, nel quale il rappresentante del “Movimento di Servizio al Popolo” porge le condoglianze alle famiglie iraniane in lutto a seguito del “sanguinoso terrorismo commesso nella Repubblica Islamica dell’Iran” che lasciò 211 morti; condanna l’atto atroce contro persone innocenti e ogni forma di terrorismo, chiede all’opposizione e al governo dell’Azerbaigian “di rivelare il loro rapporto con il sanguinoso atto di terrorismo commesso e di esprimere una posizione libera” e, tra l’altro, esprime un forte “rifiuto del sionismo” che egli definisce come “assassino dell’umanità”.
È nota la collaborazione strategica tra Israele ed Azerbaijan, i quali condividono una linea geopolitica contro l’Iran. Al presente Baku sostiene l’offensiva militare israeliana e le conseguenti brutalità commesse a Gaza, ripagando “moralmente” il massiccio sostegno tecnologico-militare ottenuto da Israele per l’attacco alla popolazione armena dell’Artsakh. Secondo l’opinione degli esperti, citata da Armen Gevorgyan, membro della delegazione RA presso l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (APCE), “la decisione di Ilham Aliyev di risolvere le divergenze con l’Armenia non diplomaticamente ma mediante la guerra è stata determinata dal fatto che le aziende israeliane avevano accettato di vendergli le ultime tecnologie militari. Secondo fonti aperte, nel 2016-2020, poco prima dell’inizio della guerra dei 44 giorni nel Nagorno Karabakh, Israele fornisce quasi il 70% delle “armi principali” dell’Azerbaigian”.

Verso una nuova guerra?
La settimana scorsa l’Azerbaigian è stato espulso dall’APCE per la sua incapacità di condurre elezioni libere ed eque, la mancanza di separazione dei poteri, la debolezza del suo corpo legislativo rispetto all’esecutivo, la mancanza d’indipendenza della magistratura e di rispetto dei diritti umani, e per “non avere riconosciuto le gravi conseguenze sul piano umanitario e sui diritti umani derivanti dalla mancanza di un accesso libero e sicuro attraverso il corridoio di Lachin”, per cui l’Assemblea ha ricordato la sua “condanna dell’operazione militare del settembre 2023 che ha portato alla fuga dell’intera popolazione armena del Nagorno-Karabakh all’Armenia e alle accuse di “pulizia etnica””.

Sempre nuove minacce.
Nel frattempo Baku ha respinto le proposte del primo ministro armeno Pashinyan di istituire un meccanismo di controllo reciproco degli armamenti e un patto di non aggressione. E’ naturale che dopo l’occupazione dell’Artsakh, gli aggressori neo-ottomanisti stiano cercando una nuova scusa per riaprire le pagine delle violenze e strappare nuovi territori mediante un’altra guerra contro l’Armenia. Tanto l’uso della forza è ormai il metodo instaurato da diversi aggressori del mondo moderno e basta seguire le vicende tra Israele e Palestina e utilizzare l’“antiterrorismo” come etichetta/pretesto per legittimare la nuova aggressione, come hanno fatto prima della pulizia etnica del Nagorno Karabakh (Artsakh), attaccando lo stato autoproclamato e strappando tutto il territorio alla sua popolazione autoctona.
È così che viene estesa la copertura geopolitica della Turchia: attraverso l’Azerbaijan, giovane dittatura dei tartari del Caspio che ha già inghiottito l’Artsakh armeno e ora pone nuove richieste minacciose: “che l’Armenia cambi la propria costituzione”, cercando così di dettare le regole allo stato democratico dell’Armenia. Nello specifico chiede all’Armenia di cancellare da tutti i documenti ufficiali la menzione dell’Artsakh e dei diritti del rimpatrio degli sfollati armeni. Allo stesso tempo le autorità azere hanno avviato una massiccia campagna sulle piattaforme social presentando tutto il territorio e il patrimonio culturale dell’Armenia come “non armeno”, un revisionismo che attribuisce l’intero patrimonio storico-ulturale armeno ad altri popoli.

Continua il genocidio culturale e damnatio memoriae.
Non considerando il dolore degli armeni per la perdita dell’Armenia storica, che a seguito del genocidio del 1915 è stata denominata “Armenia occidentale”, ora gli azeri, si sono inventati in modo speculare il termine “Azerbaigian occidentale” pretendendo che l’intero territorio e il patrimonio culturale dell’Armenia siano turco-azere e siano appartenute ad un immaginario “Azerbaijan” identificabile con Aghwank o Aluank (Albania), il quale però era un paese confinante, i territori del quale non si estendevano a quelli dell’Artsakh e dell’Armenia.
Allo stesso tempo Baku blocca l’accesso delle organizzazioni internazionali al territorio occupato dell’Artsakh, mentre il Ministero della cultura ha ricevuto l’ordine di cancellare ogni testimonianza della presenza millenaria degli armeni sul territorio del Karabakh. La lingua armena ne è un segno vivo e onnipresente, ecco perché nella situazione attuale sono in grave pericolo, prima di tutto le antiche iscrizioni armene presenti su oltre 4mila monumenti nell’Artsakh.