Gaza: serve realpolitik

di Dario Rivolta * –

In merito alla crisi di Gaza e al comportamento del governo italiano occorre distinguere tre aspetti: l’atteggiamento più opportuno da tenersi, cosa sarebbe più “giusto” fare e cosa potrebbe succedere nei prossimi giorni, settimane, mesi.
Su cosa è opportuno è bene affermare che sia il nostro governo sia la maggioranza degli europei si stiano comportando nel migliore dei modi possibili. Il rischio di un allargamento del conflitto con conseguenze gravi anche per tutti noi è realistico ed è necessario evitare che si crei un clima di netta frattura tra l’occidente e il mondo islamico, in particolare arabo, frattura che potrebbe portare ad una guerra e non ricucirsi per decenni. Chi segue la politica internazionale sa che pressoché nessuno dei governi arabi avrebbe la minima intenzione di intervenire in questa faccenda, particolarmente sgradita anche per loro. Tuttavia, nonostante siamo di fronte a governi autocratici, anche costoro devono tener conto dell’opinione della maggioranza dei loro popoli. Seppur fatto solo a fini propagandistici, per decenni quelle popolazioni sono state nutrite con slogan anti-israeliani e, per quanto l’unità del mondo arabo sia una chimera, moltissimi arabi ci credono davvero e solidarizzano, almeno a parole, con i palestinesi. È difficile anche per un governo fortemente autoritario non tener conto di un sentimento molto diffuso che lo stesso governo ha alimentato per anni al fine di creare un nemico esterno comune che aumenti il senso interno di appartenenza e taciti le possibili opposizioni.
Un discorso a parte ma ancora più pericoloso, per quanto con nette differenze, riguarda la Turchia e l’Iran. Il cinico Erdogan vede nell’attuale crisi di Gaza una carta da giocare per inseguire il suo disegno egemonico, mai sopito, su tutto il medio oriente. L’Iran, in preda a una forte delegittimazione interna del regime ma ancora in possesso di tutti gli strumenti coercitivi necessari al mantenimento al potere di una classe dirigente corrotta e squalificata, con l’aiuto dato ai palestinesi pensa di ottenere, in un modo o nell’altro, tre obiettivi contemporaneamente:
– impedire il temuto accordo, già in dirittura d’arrivo, tra Arabia Saudita e Israele,
– riaffermare il suo progetto di essere guida di tutto il mondo islamico medio-orientale (in concorrenza con turchi e sauditi),
– offrire un nemico alla propria opinione pubblica, sufficiente per ristabilire una qualche unità nazionale e marginalizzare così le contestazioni più accese.
Il vero rischio di allargamento del conflitto al momento viene proprio da Teheran, magari con l’utilizzo dei suoi proxi e cioè le milizie filo-iraniane in Iraq, Hezbollah in Libano, gli Houthi in Yemen e, naturalmente, Hamas in Palestina.
Uno schieramento netto e senza sfumature a favore di Israele da parte dei Paesi europei e dell’Italia non farebbe che alimentare l’odio anti-occidentale sempre presente tra le popolazioni arabe (seppur non sempre conscio o dichiarato) e giustificare la “necessità” di un intervento al fianco di Hamas.
È dunque per evitare quel clima pericoloso che, opportunamente, i nostri governi insistono nel richiamare le ragioni umanitarie a difesa dei civili di Gaza contro i perduranti attacchi israeliani. Va letta allo stesso modo la richiesta di “proporzionalità” nonostante, un po’ ipocritamente, si affermi contemporaneamente un generico diritto di Israele a difendersi. Anche il ribadire come soluzione la necessità di “due popoli, due Stati” serve, anche qui opportunamente, per mostrare una condivisa “comprensione” delle ragioni dei palestinesi.
Opportuno ma non necessariamente giusto. Se qualcuno nutriva ancora dubbi, i fatti del 7 ottobre dovrebbero averli fugati poiché Hamas ha dimostrato di essere un gruppo terroristico e niente di più. È evidente che Hamas non rappresenti tutti i palestinesi e solo i più irriducibili tra di loro, ma non va dimenticato che l’obiettivo ufficializzato nella sua creazione, obiettivo mai smentito e più volte riaffermato, sia la scomparsa totale dello Stato di Israele. Ancora prima degli ultimi tragici fatti, Hamas da Gaza aveva continuato a lanciare razzi sulle città e i villaggi israeliani e niente lascia intendere che abbiano la minima intenzione di interrompere il loro atteggiamento aggressivo. È naturale quindi che Israele si ponga come obiettivo l’eliminazione totale di questi terroristi e questa è la volontà della maggior parte della popolazione israeliana, qualunque sia il governo che siede a Gerusalemme. Che per ottenere questo risultato le truppe israeliane bombardino in modo feroce una striscia di territorio enormemente densa di popolazione e che, così facendo, si trovino ad uccidere centinaia di persone che magari con Hamas non hanno nulla da spartire è qualcosa di devastante e moralmente deprecabile. Tuttavia non ci si può nascondere che Hamas abbia da sempre praticata la tattica di sistemare i propri comandi operativi, le basi di lancio dei missili, le armi e quant’altro utile alla guerriglia, in mezzo alle abitazioni di civili, alle scuole, alle moschee e, molto probabilmente, all’interno degli ospedali. Di ciò si hanno prove evidenti non solo da ora ma da quando Hamas esiste. Purtroppo questi feroci terroristi usano la loro stessa popolazione come ostaggio approfittando di quelle possibili morti quale strumento di propaganda anti-israeliana. Chiedere, come alcuni hanno fatto, che la risposta di Tel Aviv sia proporzionata a quanto accaduto il 7 ottobre è un puro non senso. Cosa significherebbe “proporzionata”? Vuol forse dire fare le stesse cose fatte da Hamas e cioè sgozzare civili inermi e prendere ostaggi? Oppure, più realisticamente colpire solo i militanti? Come potrebbe essere praticata quest’ultima soluzione se quegli stessi militanti si nascondono dietro i loro stessi concittadini inermi e se ne fanno scudo mischiandosi nella folla? Tutti sanno, anche a Roma, Parigi, Londra e Berlino, che se veramente si vuol porre fine al costante pericolo rappresentato dalla sopravvivenza di Hamas ciò che Israele sta facendo è l’unica soluzione praticabile.
Giustamente anche Biden ha scongiurato Tel Aviv di non procedere ad una occupazione, seppur temporanea, di tutta la Striscia di Gaza. Se e qualora l’esercito israeliano volesse davvero occupare la Striscia, oltre a incorrere in perdite inimmaginabili a causa di franchi tiratori ed esplosivi accuratamente nascosti, quella invasione non farebbe cha alimentare la rabbia anti-israeliana in tutto il mondo arabo e di conseguenza incrementare la possibilità di un allargamento del conflitto.
Anche nell’atteggiamento tenuto dal governo italiano e da altri europei nella votazione all’Onu occorre fare una distinzione tra ciò che sarebbe stato giusto e ciò che era opportuno. Giusto sarebbe stato votare contro una risoluzione che non condanna apertamente l’atto terroristico di Hamas e che non riconosce il diritto israeliano all’autodifesa. Opportuna invece è stata la decisione di astenersi, proprio per evitare l’evidenziazione dell’esistenza di due blocchi contrapposti: noi occidentali e il mondo arabo.
Fatta la distinzione tra ciò che è giusto e ciò che è invece opportuno, ci si deve porre il problema di cosa potrà succedere nel futuro immediato e in quello più lontano. Innanzitutto, dato per scontato che si debba evitare un allargamento del conflitto, è stato un bene, allo scopo di fungere da deterrente, che gli americani abbiano inviato vicino alle coste israeliane due portaerei e che abbiano annunciato di essere pronti ad intervenire in difesa di Israele. Naturalmente a Washington non hanno alcun vero interesse ad intervenire realmente, ma si tratta di lanciare un avvertimento a Teheran (ed altri) affinché eviti la tentazione di intervenire, direttamente o tramite proxi.
Quanto all’ipotesi di rilanciare il negoziato tra israeliani e palestinesi in merito al progetto di “due stati, due popoli”, è bene che se ne parli ma tutti sappiamo che, a breve, tale negoziazione non è praticabile. Fino a che Hamas non dovesse essere veramente distrutta o ridotta in condizioni di non nuocere, una qualunque soluzione di quel tipo rappresenterebbe agli occhi di tutti, mondo arabo e non, la vittoria di Hamas. Non si è riusciti a realizzare l’ipotesi dei due Stati in tutti gli anni precedenti per cattiva volontà e malafede sia degli israeliani sia dei palestinesi e raggiungerla ora dopo i fatti del 7 ottobre sembrerebbe il trionfo di un atto terroristico. Significherebbe che il terrorismo paga e Israele non può permetterselo.
Che, comunque, nel futuro lì si debba puntare e sia necessario arrivarci è fuor di discussione ma non possiamo nasconderci i fortissimi ostacoli, a partire dalla presenza oramai estremamente pervasiva di colonie ebraiche all’interno di territori a maggioranza palestinese. Una loro coesistenza sarebbe più che auspicabile ma, almeno attualmente, sembra impossibile perfino ipotizzarla. È ovvio che, nel caso si voglia realizzare uno Stato palestinese, almeno una buona parte degli insediamenti abusivi israeliani debba essere smantellata e tutta quella terra restituita ai legittimi proprietari. Perché si arrivi anche solo all’inizio di una possibile negoziazione, occorre che, prima che inizino i colloqui, Hamas sia definitivamente sconfitto e che, altra condizione indispensabile, che Netanyahu si faccia da parte e che i settori religiosi ebraici più oltranzisti siano messi in condizioni di non nuocere. Quanto a Netanyahu, la sua fine politica, appena conclusa la guerra, è praticamente certa e lui dovrà farsi da parte. Molto più difficile sarà ricondurre all’ordine i fanatici ebrei ortodossi che continuano ad ipotizzare il “grande Israele”. Cosa successe a Beghin dopo gli accordi di Oslo è la dimostrazione che religiosi pazzi, di qualunque fede siano, sono nemici della pace e del buonsenso.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.