Il conflitto dei curdi

di Enrico Oliari

Una delle cose che è possibile apprendere dalla storia geopolitica è che i conflitti non si possono risolvere. I conflitti possono essere gestiti, ma non risolti. Ad esempio il conflitto del Trentino Alto Adige, o Tirolo meridionale, è un conflitto gestito grazie alle autonomie, ma se queste venissero meno, si riaccenderebbero nazionalismi e secessionismi che fino a poco fa si traducevano in attentati in Alto Adige.
Un esempio di conflitto gestito male è quello tra Russia e Nato in materia di Ucraina, con la Nato che cerca di acquisire un importante territorio strategico e la Russia che non può permettersi di avere battaglioni e basi avversarie al proprio confine.
E a farne le spese è in questo caso l’Ucraina.

Il mondo è costellato di conflitti, al momento sono circa 900 le guerre i diversa entità in corso, dalla Siria al Mali, dalla Palestina a Pakistan, dalla Colombia alle Filippine.
Purtroppo i conflitti risultano spesso avere origine da conflitti precedenti, quando non da accordi sovranazionali, stesi a tavolino senza tener conto delle peculiarità territoriali e delle storie e tradizioni delle popolazioni che le abitano.
E’ il caso del conflitto curdo, gestito in modo superficiale dalla comunità internazionale e per nulla sopito dal passare degli anni.

I curdi rappresentano ancora oggi uno dei principali gruppi etnici privi di un territorio nazionale, con una popolazione di alcune decine di milioni di persone suddivisa principalmente tra quattro nazioni, cioè Turchia (Kurdistan del Nord), Siria (Rojava), Iraq (Kurdistan centrale) e Iran (Rojalat).
Nuclei minori sono presenti in Armenia, Afghanistan e Azerbaijan, mentre circa mezzo milione di curdi vivo in Asia Centrale in quanto discendenti di coloro che vennero trasferiti durante il periodo dell’Impero Russo.
Si tratta di una civiltà antichissima, basti pensare che Erbil, capitale del Kurdistan Irq. è forse la città più antica ancora oggi abitata: si calcola che il primo insediamento risalga al XXIII secolo a.C.

I curdi sono vittime degli accordi e dei trattati internazionali seguiti alla sconfitta dell’Impero Ottomano nella Prima guerra mondiale: nel 1920 il trattato di Sevres, a cui presero parte Italia, Francia, Gran Bretagna, oltre alla Turchia e alla Grecia, prevedeva una “zona curda” ad est dell’Eufrate, con la possibilità per la popolazione di costituirsi in nazione dopo un anno.

Ma lo stesso trattato venne sostituito da quello di Losanna del 1923, che pose fine al conflitto greco-turco riassegnando i confini dell’Impero Ottomano.

I curdi si ritrovarono praticamente senza terra, cioè senza la possibilità di proclamarsi nazione. Disastri erano già stati fatti in precedenza, nel 1916, dall’Accordo Sykes-Picot, che spartiva il Medio Oriente in stati disegnati a tavolino sotto l’influenza francese e britannica: la Russia otteneva quasi tutto il Kurdistan settentrionale lungo una linea che corrisponde grosso modo all’attuale confine turco-iracheno.

Un secolo fa quindi venne stabilita l’inesistenza del Kurdistan a scapito della quarta minoranza etnica del Medio Oriente dopo arabi, persiani e turchi. Popolazione spesso mal sopportata dai nazionalismi dei paesi ospitanti, penso alla Turchia di Recep Tayyp Erdogan, ma per tornare al tema del conflitto è necessario tenere presente due capisaldi.

Il primo pilastro è che in quelle specifiche aree la politica intesa come partitica è un aspetto sociale radicato per non dire istituzionalizzato, per cui si hanno province controllate da un determinato partito, il quale provvede a costruire strade, a far funzionare ospedali e scuole ecc., e province controllate da un altro partito, che a sua volta fa le stesse cose, e via dicendo per le atre formazioni politiche.
Non quindi lo stato nazionale iracheno, non la regione autonoma del Kurdistan Irq., bensì il partito locale ad incacare lo Stato.

Il secondo aspetto è la mancanza di unità dei curdi, segno che le divisioni geografiche di un secolo fa hanno alzato muri anche fra la stessa popolazione.

Un esempio è quanto accaduto durante la guerra allo Stato Islamico e che non da escludersi accada ancora oggi: poiché il governo centrale di Baghdad faticava ad inviare quanto stabilito in sede politico-giuridica al governo del Kurdistan Irq., a causa delle spese di guerra e dell’economia perennemente sgangherata, questo vendeva autonomamente il petrolio alla Turchia, ed i proventi venivano messi nelle banche turche.

Si tratta dello stesso paese che è costantemente in una situazione di conflitto con i curdi della Turchia, che bombarda i villaggi che ospitano i guerriglieri del Pkk, ma anche che arresta con scuse traballanti i deputati dell’Hdp, il Partito Democratico dei Popoli di Selehattin Demirtas, anche lui in prigione come buona parte dei parlamentari e degli esponenti del partito.
Partito che comunque si tratta di una formazione moderata, ben lontana dal radicalismo politico e dalla lotta armata del Pkk, e che è uno dei quattro ad essere rappresentati in Parlamento in quanto è stato in grado di superare lo sbarramento del 10%.

Con questi due punti fermi, e soprattutto per la mancanza di una leadership unica che abbia le carte per parlare a tutto il popolo curdo, ognuno guarda ai propri interessi, e personalmente so di tangenti alle imprese occidentali che toccano il 100%, segno di una corruzione grave e diffusa.

Difficilmente i curdi riescono oggi a mettere insieme un’azione comune.
Non è successo neppure durante la guerra all’Isis, per quanto il loro contributo sia stato determinante, grazie anche al supporto occidentale, a fermare l’espansione dello Stato Islamico in Siria, dove combatteva l’Ypg, che è l’ala armata non dei curdi ma del Pyd, cioè del Partito Democratico, ed in Iraq, dove hanno combattuto i Peshmerga dei diversi partiti, tant’è che è capitato sulla fine del conflitto che tornassero a spararsi tra di loro per il controllo di Kirkuk.

Quello che potrebbe essere quindi il conflitto curdo è alla fine annichilito dalle divisioni interne al popolo stesso, sia geografiche che politiche, e manca ad esempio la capacità di portare una causa comune all’attenzione della comunità internazionale.

I curdi della Turchia rappresentano oltre il 20% della popolazione del paese, e subiscono discriminazioni da parte del regime di Recep Tayyp Erdogan, il quale nella reazione al fallito golpe del 2015 è riuscito ad inserire nella repressione pure loro, benché non avessero nulla a che fare con la rete gulenista.

I curdi della Siria hanno valorosamente combattuto l’Isis e autoproclamato l’autonomia, ma sono stati spinti ad est dell’Eufrate dai carrarmati turchi probabilmente su accordo di Ankara, Mosca e Damasco.

I curdi del Rojalat, cioè del Kurdistan Irn, sono spesso sottoposti a persecuzioni da parte del governo di Teheran in quanto sospettati di tramare ambizioni indipendentiste.

Ed infine i curdo-iracheni, che hanno subito persecuzioni sotto Saddam Hussein, tra cui il drammatico eccidio di Halabja del 1988: durante la guerra iracheno-iraniana, per tenere sotto controllo la minaccia indipendentista rappresentata dai Peshmerga sia del Partito Patriottico che del Partito Democratico, i quali avevano trovato un momento di unità, ricorsero al gas uccidendo ad Halabja circa 5mila fra militari e civili, e molti ne morirono di cancro in seguito.

Anche per questo, oltre che per avere un migliore controllo del paese, gli Usa hanno sostenuto il riconoscimento dell’autonomia del Kurdistan Irq, che è avvenuto con la Costituzione del 2005.

Oggi la regione autonoma è divisa in quattro governatorati cioè Dahuk, Erbil, Halabja e Sulaymaniyya.
Il sì al referendum indipendentista del 2017 ebbe il 93% delle preferenze, ma non trovò il favore di Iraq, Stati Uniti, Turchia ed Iran.

Quello curdo è insomma un conflitto in fieri, che potrebbe essere spinto dal desiderio di dar vita ad un’unica nazione se non da interessi per le materie prime, come il petrolio.
Ma certamente non oggi, perlomeno fino a quando mancherà da parte degli interessati la capacità di superare le barriere geografiche loro imposte dalla storia.