Il grano ucraino dell’Ue: dalla concorrenza sleale all’uranio impoverito

di Dario Rivolta * –

Fin dall’antichità la grande pianura ucraina è stata considerata un granaio particolarmente produttivo da tutti i popoli che l’hanno conosciuta. Fertile e molto produttiva, ha costituito la massima risorsa economica del Paese assieme, dal ‘700 in poi, alle attività industriali sviluppate particolarmente nelle regioni ad est. È proprio per questa sua eccezionale produttività che tra le preoccupazioni che in questi giorni sono manifestate dagli agricoltori europei c’è la questione del futuro possibile ingresso dell’Ucraina (o di ciò che ne resterà) nell’Unione Europea. I prezzi di produzione di tanti prodotti agricoli ucraini senza più la presenza di dazi protettivi saranno troppo competitivi in confronto a quelli nostrani, soprattutto per il basso costo della manodopera e per gli aiuti finanziari che da Bruxelles arriveranno per aiutare l’adeguamento dell’Ucraina agli standard istituzionali ed economici europei. Per le nostre imprese agricole, già in difficoltà a causa di una politica agricola europea penalizzante, sarà piuttosto dura far fronte ad una concorrenza che resterà di fatto “drogata” per un certo numero di anni.
Tuttavia ciò a cui nessuno fa cenno è che la distruzione in atto nel Paese a causa della guerra non tocca soltanto le infrastrutture pubbliche e le abitazioni civili, ma sta rendendo incoltivabili i campi una volta eccezionalmente ricchi. La ragione è che se coltivati potrebbero far crescere generi alimentari potenzialmente tossici a causa delle enormi quantità di uranio impoverito che vi si sta disperdendo per l’uso di proiettili e di carri armati trattati con quel metallo pesante.
L’uranio in natura è debolmente radioattivo ma, grazie ad il suo “arricchimento”, diventa utilizzabile sia per le centrali atomiche che per le bombe nucleari. Arricchirlo estraendo il componente detto Uranio 235 è un procedimento necessario affinché possa essere usato per quegli scopi. Nel processo di arricchimento si crea però un sottoprodotto di fabbricazione che, se adeguatamente legato e riscaldato ad alte temperature, diventa uranio impoverito.
Già dal 1960 i centri di ricerca dell’esercito americano avevano scoperto che l’uranio impoverito ha una altissima densità, un basso costo, una grande duttilità e la capacità di assorbire le radiazioni. In campo civile è usato proprio per queste sue caratteristiche come schermatura dalle radiazioni in medicina (è più efficace e meno costoso del piombo) e, a causa del suo peso atomico, anche come contrappeso nelle applicazioni aerospaziali e come zavorra nelle imbarcazioni. A partire dalla guerra del Kosovo contro la Serbia, gli Stati Uniti hanno cominciato ad usarlo anche per scopi militari, in particolare come corazza ultra resistente per i carri armati e come parte di bombe e proiettili. In queste ultime applicazioni si è dimostrato più efficace del tungsteno, e meno costoso, trattandosi di un residuo di altra lavorazione. È in grado di fermare o ridurre l’impatto di proiettili normali e di perforare corazzature d’acciaio una volta legato con altri metalli. Le armi “donate” dagli USA e dalla Gran Bretagna agli ucraini ne contengono grandi quantità e non c’è motivo di dubitare che anche le armi russe ne siano dotate.
Il problema nasce dal fatto che a contatto con l’aria i prodotti trattati con uranio impoverito tendono a rilasciare polveri finissime dalla superficie, e usati come proiettili, nell’urto si polverizzano ulteriormente. Tali polveri si disperdono immediatamente nell’aria e il vento le può trasportare anche a notevoli distanze. Uno studio effettuato da un biochimico della Northern Arizona University ha stabilito che le cellule animali esposte a queste polveri sono soggette a mutazioni genetiche determinando tumori e altre patologie. L’esposizione ai composti chimici di uranio impoverito, indipendentemente dalle sue proprietà radioattive piuttosto ridotte, può quindi causare danni ai reni, al pancreas, allo stomaco e all’intestino ed avere effetti citotossici e carcinogeni in tutti gli animali, compreso l’uomo.
Poiché queste polveri oltre ad essere di dimensioni infinitesimali sono anche solubili in acqua, è conseguente immaginarne l’ingresso in tutto il ciclo produttivo. I vertici delle forze armate dei Paesi che ne hanno fatto uso tendono a minimizzare come non dimostrato il rapporto di causa ed effetto tra tutte le malattie riscontrate nel personale militare e tra i civili delle aree contaminate, ma ovunque si siano verificati ricorsi alla magistratura da parte delle vittime le sentenze hanno confermato il nesso indiscutibile. La possibile contaminazione con le polveri di uranio impoverito avviene non solo per contatto, ma soprattutto per inalazione o per l’ingestione di cibo a sua volta contaminato. I Paesi che più stanno attualmente soffrendo dell’uso di armi ad uranio impoverito sono Iraq, Afghanistan, la Serbia e, a breve termine, l’Ucraina. I primi casi segnalati in Italia risalgono al 1999, quando un soldato cagliaritano morì di leucemia poco dopo il ritorno dalla missione militare in Bosnia Erzegovina. Da allora tra militari o civili italiani che si sono trovati nelle zone di guerra durante o dopo i combattimenti, le vittime accertate sono state 45 e 500 i malati. Nonostante la reticenza degli alti comandi, dal 2019 in Italia viene riconosciuto l’effetto pericolosissimo di questa contaminazione. Con senso civico e amore per i suoi soldati, il generale Roberto Vannacci (sì, proprio quello del libro tanto discusso recentemente) aveva presentato due esposti alla Procura militare e alla Procura civile di Roma denunciando le gravi e ripetute omissioni nella tutela della salute del contingente italiano impiegato in Iraq. Vannacci ne parlava a ragion veduta essendo stato comandante della operazione “Prima Parthica” in Iraq.
In particolare la Serbia (per gli altri Stati non si hanno statistiche attendibili) ha constatato rispetto al passato un enorme aumento di una serie di malattie imputabili all’azione velenosa di quelle polveri. L’aumento, dimostrato dal confronto con gli anni precedenti, è nel numero di cancri alla tiroide, leucemia, linfoma maligni, sarcoma, cancro testicolare, cancro esofageo e gastrico. Anche il numero di uomini e donne affetti da sterilità è cresciuto nel sud della Serbia, nel Kosovo e nella Methodia. Attualmente nel sud della Serbia non c’è quasi nessuna famiglia senza almeno un parente sofferente di qualche tipo di cancro ed il picco di queste malattie è atteso nei prossimi due anni. Il decadimento della velenosità dell’uranio impoverito è stimato da qualcuno in addirittura quattro miliardi di anni.
In quella zona di Europa ove la guerra è durata pochi mesi esponenti Nato hanno dichiarato siano state usate almeno quindici tonnellate di bombe contenenti uranio impoverito. La stima di quante tonnellate di questo metallo pesante siano state usate finora in Ucraina non è ancora possibile, ma considerando che così tante tonnellate di bombe sono state usate in Serbia per una guerra di pochi mesi, è facile immaginare che per l’Ucraina le quantità sono sicuramente molto maggiori. E così saranno le conseguenze. Ancora limitandoci alla Serbia, un expertise compiuta dalla professoressa Rita Celi dell’Istituto di Nanotecnologia di Torino riporta di avere riscontrato nel corpo di un malato serbo una concentrazione di uranio impoverito 500 volte più alta di quanto normalmente ammissibile.
Le guerre sono sempre un’assurda distruzione di vite e di cose. Aver perfezionate le armi in modo da essere più efficaci contro il nemico non può che essere di soddisfazione per chi le usa, ma è colpevole chi non tiene conto anche delle conseguenze che dureranno decenni e forse secoli. Mentre tutti temiamo comprensibilmente i possibili effetti radioattivi dell’uso di bombe nucleari, sembra che nessuno si renda sufficientemente conto che anche nelle guerre dette “tradizionali” si possono creare danni che continueranno ad agire perfino sulle prossime generazioni.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.