La Cina spaventa il mondo

di Axel Famiglini

CinaL’espansione economica di una nazione, in particolari circostanze, può generare una contestuale espansione politica tale da porre le basi per la definizione di una sfera di influenza commerciale e militare su determinate aree del globo. In tal senso la stupefacente crescita economica che ha caratterizzato la Cina degli ultimi vent’anni non può far ignorare quali potranno essere le future implicazioni politiche di uno sviluppo che sta avendo un impatto assai rilevante sulle economie e sulle ambizioni geostrategiche di un Occidente oppresso dai debiti e da una crisi economica di cui non si intravede ancora la fine.
Nel 2009 venne pubblicato in Italia per i tipi de Il Saggiatore l’interessante saggio intitolato “Cinafrica” nel quale i giornalisti Serge Michel e Michel Beuret mettevano in evidenza come la Cina stesse promuovendo tutta una serie di accordi commerciali con numerosi stati africani, in gran parte appartenenti alla francofonia, con lo scopo di accedere direttamente alle materie prime possedute da quei Paesi. La strategia cinese, definita dai cinesi stessi “win-win” (vincente-vincente), in molti casi è stata coronata da successo perché in cambio di infrastrutture, quali strade, dighe ed ospedali, le aziende di Pechino, spesso statali o supportate dallo Stato, riuscivano a strappare ai governi africani importanti concessioni di sfruttamento delle risorse locali se non addirittura, in alcuni casi, la possibilità di insediare gruppi di coloni provenienti dalla Cina per calmierare in qualche modo la pressione demografica nazionale. La Cina infatti non ha mai preteso dai dittatori africani assicurazioni sui diritti umani o sui progressi della democrazia. Questo ha sempre rassicurato i governi locali, come quello sudanese, che, al contrario, spesso subiscono pressioni da parte occidentale proprio su queste tematiche. In cambio i regimi africani sono soliti chiudere un occhio sulle condizioni di lavoro degli operai impiegati nelle imprese cinesi che spesso e volentieri sono caratterizzate da mero sfruttamento se non da vere e proprie nuove forme di schiavismo importate direttamente dalla Madrepatria. La situazione in atto sta spaventando le ex potenze coloniali ed in particolar modo la Francia sente minacciata la propria supremazia su un’area che ha sempre considerato, anche dopo la decolonizzazione, il proprio “giardino di casa”. Non a caso, dopo anni di decrescente impegno strategico, ma non economico, nella regione, nell’aprile 2011 la crisi politica in Costa d’Avorio tra il presidente Ouattara e l’irriducibile Gbagbo è stata risolta grazie al decisivo intervento militare francese.
Se in Africa i francesi, assieme ad altri attori europei e statunitensi (in particolare con AFRICOM), si stanno adoperando per contrastare le mire espansionistiche cinesi, la Cina continua a tessere le sue tele lungo le rotte commerciali che legano il proprio Paese con l’Africa, l’Europa e il resto dell’Asia. E’ noto il progetto cinese di costruzione di tutta una serie di scali commerciali, denominato dagli analisti indiani “la cintura di perle”, fra i quali spicca il porto di Hambantota in Sri Lanka al quale dovranno seguire altri interventi in Pakistan (Gwadar), Bangladesh, Birmania e Maldive. Proprio sulla Birmania è in atto la convergenza dei maggiori attori politici occidentali in supporto della candidata democratica Aung San Suu Kyi che da molti anni si sta facendo interprete della crescente insofferenza popolare nei confronti della giunta militare filocinese che ha portato il Paese allo stremo lasciandolo boccheggiare per decenni nel sottosviluppo e nel degrado. L’obiettivo principale delle potenze occidentali, al di là di soddisfare le sacrosante richieste di democrazia del popolo birmano, è mettere definitivamente in crisi quello che è, nei fatti, un vero e proprio protettorato cinese sulla Birmania. In tal modo Europa e Stati Uniti potrebbero segnare un punto a loro favore togliendo terreno sotto i piedi alle mire espansionistiche di Pechino nell’area le quali, oltreché preoccupare l’Occidente, stanno mettendo in stato di crescente agitazione l’India ormai colpita fin nel profondo della propria coscienza nazionale da una sorta di sindrome di accerchiamento geostrategico operato ai suoi danni dall’ex “Celeste Impero” con la complicità di un Pakistan che non si starebbe limitando al mero doppio gioco in Afganistan. In tal senso vanno nella direzione di un riavvicinamento tra Birmania e mondo occidentale sia la visita del segretario di Stato americano Hillary Clinton del dicembre 2011 che il viaggio del ministro degli esteri britannico William Hague del gennaio 2012, il primo effettuato nel Paese dalla diplomazia inglese dopo più di 50 anni di assenza. Se da un lato il regime birmano, ormai in crisi ed in progressivo, almeno in apparenza, allontanamento dalla stretta cinese, sembra venire incontro alle richieste europee e statunitensi, dall’altro le isole Maldive si sono rese protagoniste nel febbraio 2012 di un colpo di stato ai danni del presidente democraticamente eletto Mohammed Nasheed che ha visto mobilitarsi in suo favore il Commonwealth britannico il quale, dopo aver chiesto all’India di intervenire attraverso i suoi canali diplomatici (e non solo), sta facendo pressioni sul presidente golpista, Mohamed Waheed, affinché nell’arcipelago si torni al più presto ad elezioni. Non è un caso che Nasheed abbia più volte dichiarato di aver ricevuto, una settimana prima del golpe, un ultimatum da parte di un alto ufficiale della Difesa con lo scopo di intimarlo a firmare un accordo di cooperazione con la Cina.
Oltre all’India, gran parte dei Paesi limitrofi alla Repubblica Popolare Cinese temono ormai la crescente invadenza che Pechino sta mettendo in atto ai danni delle nazioni vicine. In particolare si contano in numero sempre crescente gli scontri diplomatici che si verificano tra la Cina e gli Stati che si affacciano sul Mar Cinese Meridionale e sul Mar Giallo in tema di diritti di sfruttamento delle risorse dell’area e sul controllo di determinati arcipelaghi. Emblematico è stato il caso delle isole Senkaku, contese tra Giappone e Cina e tornate agli onori della cronaca nel settembre 2010 dopo che si era pervenuti ad una pericolosa crisi diplomatica fra i due Paesi asiatici. Gli Stati Uniti d’America, i quali stanno vivendo una pericolosa simbiosi economica, finanziaria e monetaria con la Cina denominata dallo storico britannico Niall Ferguson “chimerica”, stanno a loro volta cercando di definire tutta una serie di accordi con i paesi dell’area del Pacifico al fine di contenere il crescente espansionismo cinese in Estremo Oriente. Sud Corea, Giappone, Filippine, Taiwan, Singapore, Malaysia, Cambogia ed Australia sono tra i primi Paesi interessati ad un accordo di reciproca difesa e protezione con gli USA dalle crescenti pretese economiche e territoriali di Pechino. La Cina è riuscita a spaventare addirittura il Vietnam rendendo possibile un importante e quasi incredibile riavvicinamento tra Hanoi e Washington e la partecipazione dei due Stati a manovre navali congiunte.
In questo clima di latente guerra fredda rimane ambigua la posizione della Russia. La Federazione russa, dopo il trauma delle mutilazioni sofferte a seguito della dissoluzione dell’URSS, sta da anni cercando di ripristinare la gloria perduta attraverso un’azione politica e militare che tuttavia spesso mostra l’inadeguatezza dell’apparato bellico moscovita a far fronte ai mutamenti geostrategici occorsi negli ultimi vent’anni. Sotto tale prospettiva la pressione anglo-americana sia in Asia centrale, presso le ex repubbliche sovietiche turcofone, che nell’Europa dell’est, come in Ucraina o nel Caucaso, ha messo più di una volta in evidenza le difficoltà di Mosca sullo scacchiere internazionale, la quale ha cercato nel vicino cinese una sorta di improbabile alleato al fine di porre un ricatto strategico a quell’Occidente che ha sovente violato quello che ancora i russi considerano il proprio “cortile di casa”. Tuttavia l’alleanza sino-russa, per quanto possa essere foriera di preoccupazioni per l’Europa e gli Stati Uniti, è ben lungi dall’essere stretta nonostante le recenti esercitazioni navali congiunte sul Mar Giallo. Infatti storicamente Cina e Russia, divise per lungo tratto dal fiume Amur, sono sempre risultate rivali in Asia e oggi giorno il rinnovato interesse della Cina per l’Asia centrale russa e i suoi giacimenti di gas naturale probabilmente preoccupa Mosca più di quanto possano agitare i suoi sogni più lugubri i possibili esiti del nuovo Grande Gioco reinterpretato dall’Occidente e dai Russi nel cuore dell’Asia per il controllo delle riserve petrolifere e minerarie di quelle regioni.
Alla Cina guardano con favore, a mo’ di riscatto politico internazionale, le autocrazie “più in vista” (e sostanzialmente fallite) sulla scena mondiale come Cuba, la Corea del Nord (un altro protettorato cinese), l’Iran (con il quale, in codominio con Mosca, Pechino detiene vitali scambi commerciali per la sopravvivenza del regime di Teheran) ed il Venezuela di Chavez. Numerosi stati dell’America Latina, in piena deriva “neo-bolivariana” e constatando le evidenti difficoltà economiche statunitensi, soprattutto in tema di bilancia commerciale, trovano nella Cina un interlocutore di grande interesse economico e quest’ultima vede in Paesi come il Brasile importanti mercati per esportare le proprie merci e per garantirsi un sicuro approvvigionamento di materie prime.
La Cina, a sua volta, ha provato a cercare sponda anche nei Paesi arabi e presso le varie “primavere” che si sono succedute in molti stati mediorientali ma su questo fronte ha avuto scarso successo probabilmente perché Pechino ha compreso subito che le contraddizioni insite in seno al regime cinese sono molto simili a quelle proprie delle autocrazie del Magreb e del Vicino Oriente e pertanto ha preferito desistere per evitare pericolosi contagi. Addirittura la Turchia “neo-ottomana” di Erdogan, alla ricerca di un nuovo posto al sole presso gli antichi territori della “Sublime Porta”, ha provato ad inseguire la chimera cinese in comunione con l’Iran, la Siria ed il Brasile ma le “batoste” ricevute prima in Libia, dove ha tentato infruttuosamente di assumere un ruolo assieme a russi e cinesi, e poi in Siria, dove Assad si è rivelato uno scomodo alleato, per il momento l’hanno fatta desistere dal proseguire oltre la sua avventura politica nella regione.
In questo contesto, nel quale la Cina sta provando a costruirsi una rete di relazioni che può precedere l’edificazione di alleanze di profilo più elevato rispetto a quello attuale, noi occidentali dovremmo interrogarci sulle conseguenze che questo tentativo espansionistico potrebbe portare su noi tutti. Memori del fatto che la Repubblica Popolare Cinese è retta da una oligarchia autocratica ademocratica ed estranea ai diritti fondamentali dell’uomo e delle minoranze, come quella tibetana ed uigura, ci dovremmo chiedere cosa potrebbe accadere alle democrazie occidentali qualora la Cina un giorno dovesse in qualche modo prendere il sopravvento politico, economico e militare nel mondo.
E’ nota la lezione impartita dalla Storia che ritrova le sue radici nel lungo confronto tra Atene e Sparta nel V secolo a.C. e che ha fatto crescere i suoi ultimi ramoscelli nella cosiddetta “guerra fredda” che ha visto contrapporsi USA e URSS in varie parti del mondo per un quarantennio. La lezione, già esplicitata dallo storico greco Tucidide nella sua opera, insegna che ogni nazione che pretende di esprimere un’egemonia politico-militare nei confronti di terzi tende ad imporre agli “alleati” il proprio sistema di governo. Cosa succederebbe ai popoli occidentali se l’Europa e gli Stati Uniti (questi ultimi tutt’ora oberati da un pazzesco debito estero nei confronti della Cina) fossero costretti da eventi infausti ad instaurare un regime costruito sulla falsariga di quello di Pechino?
Da questo punto di vista non è per noi auspicabile che la Cina diventi una nazione egemone ma anzi è nel nostro interesse che il crescente nazionalismo cinese venga in qualche modo annacquato dai ben più miti consigli di chi vorrebbe una Cina democratica e pacifica nella quale si iniziasse a parlare in maniera concreta di diritti umani e di migliori condizioni di lavoro. La società cinese oggi si trova ad un bivio dal quale dovrà scegliere se intraprendere una politica aggressiva ed imperiale ai danni del prossimo oppure iniziare la lunga strada verso la democrazia e le libertà costituzionali. Purtroppo al momento i segnali che giungono da Pechino non sono incoraggianti anche se è bene sottolineare che la dirigenza cinese non si è per ora dimostrata in grado di sfruttare a suo favore la debolezza economica della finanza occidentale preferendo proseguire sulla ben collaudata strada del parziale isolamento finanziario internazionale.
In base a queste conclusioni possiamo per ora dirci fortunati che il capitale cinese non abbia ancora invaso i nostri mercati perché il prezzo da pagare a Pechino in termini di libertà e democrazia sarebbe stato veramente troppo alto per noi e per le generazioni a venire. Secondo questa prospettiva chi suggeriva di “pregare” i cinesi affinché inondassero di liquidità l’Europa in affanno non assumeva un comportamento troppo diverso da quegli Ateniesi che aspettavano con trepidazione sulle mura di Atene l’arrivo dei persiani vincitori…
In attesa che la situazione internazionale si chiarisca e che la storia faccia il suo corso l’Occidente dovrebbe innanzitutto rafforzare i propri rapporti con il subcontinente indiano che vive con apprensione le mire espansionistiche cinesi e che condivide con l’Europa una lunga storia comune ed il fondamento democratico del proprio vivere civile. La crisi economica che sta colpendo le esportazioni cinesi, derivata dalla crisi dei consumi occidentali, sta riproponendo in seno all’establishment cinese la necessità della creazione di un vasto mercato interno che, come preconizzava lo studioso americano Owen Lattimore nel 1952, potrebbe superare i confini cinesi ed irradiarsi su tutta l’Asia centrale (un antico sogno del “Celeste Impero”) fino a raggiungere i lembi più occidentali d’Europa attraverso la rete ferroviaria. Ovviamente una tale prospettiva di espansione sui mercati eurasiatici non preoccupa solo Mosca ma anche il governo di New Delhi pressato dai maoisti sia in Nepal (sul cui destino c’è un fattivo interessamento da parte del governo di Londra) che all’interno del territorio nazionale indiano.
L’India, in definitiva, potrebbe pertanto rappresentare la nostra vera ancora di salvezza in un’Asia sempre più pervasa da spinte dirompenti e in un’Europa nella quale la Germania, dimentica delle posizioni ufficiali espresse a livello comunitario, si preoccupa più di incrementare le proprie esportazioni verso la Cina piuttosto che adoperarsi per contribuire a trovare delle soluzioni all’attuale crisi finanziaria europea che potrebbe produrre, nonché richiamare, nuovi mostri della politica internazionale in seno al Vecchio Continente.