Libia. Haftar, ‘no all’accordo’. Perché deve mettere le mani sulla Banca centrale. Ma chi è il generale con il passaporto Usa?

di Enrico Oliari

Neppure Vladimir Putin e Recep Tayyp Erdogan sono riusciti a far desistere il generale “di Tobruk” Khalifa Haftar dal continuare la sua personalissima guerra contro il governo riconosciuto di Tripoli.
Come scusa Haftar ha spiegato che “non sono state attese le nostre richieste”, ma la realtà è che la sua offensiva, partita il 4 aprile e che si sarebbe dovuta concludere dopo un mese, si è impantanata alle porte di Tripoli senza dargli la possibilità di mettere le mani sui forzieri della Banca Centrale Libica, denaro necessario per colmare i molti debiti che sta contraendo con i suoi sponsor. Fermare i combattimenti significa per Haftar fallire, un’eventualità che Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita ed Egitto non possono permettersi dopo aver inviato al comandante dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna) ingenti quantitativi di armi, mezzi e denaro necessari per le migliaia di mercenari, soprattutto sudanesi, impegnati con i suoi uomini.
Haftar non ha insomma mantenuto le promesse ne’ verso i suoi sostenitori, ne’ verso il popolo, al quale ha promesso di spazzar via i terroristi in una retorica contraddittoria, dal momento che tanti ve ne sono da una parte quanti dall’altra. Tra l’altro l’articolo 4 dell’accordo prevedeva una commissione fatta di 10 generali, 5 “di Tripoli” e 5 “di Tobruk”, cioè suoi rappresentanti che per via della sua retorica si sarebbero dovuti sedere al tavolo con i terroristi…
La notte tuttavia deve aver portato consiglio, ed oggi si è appreso che il generale Haftar sarà comunque presente alla Conferenza di Berlino, patrocinata dall’Onu e prevista per domenica 19 gennaio. Conferenza che a Putin non sarebbe dispiaciuto veder slittare per non perdere una propria centralità nella soluzione della crisi libica.
Su Haftar crescono le pressioni delle cancellerie e degli alleati, anche di quelli meno visibili ma non meno presenti, e non è un caso se anche gli Stati Uniti hanno reso nota l’intenzione di arrivare domenica in Germania: durante la guerra contro il Ciad del 1987, la cosiddetta “Guerra delle Toyota”, Haftar fu fatto prigioniero salvo poi essere prelevato dalla Cia e portato negli Usa fino al 2011, quando comparve per guidare la piazza di Bengasi contro Gheddafi. Con passaporto statunitense in tasca, negli Usa abitava a Langley, ad un chilometro dalla sede della Cia, ed è poco credibile che oggi, nel teatro libico, gli Usa siano assenti e disinteressati. Difatti per la sua offensiva del 4 aprile Haftar ha ricevuto il via libera da Washington, con un Donald Trump che, secondo Bloomberg, aveva dato il suo ok con una telefonata avvenuta il 15 aprile. L’idea di Trump era quella di chiudere una volta per tutte il capitolo Libia buttando a mare il governo riconosciuto dalla comunità internazionale e sostenuto in primis dall’Italia.
Sempre secondo Bloomberg a sollecitare l’intervento di Trump a favore di Haftar sarebbe stato il presidente egiziano Abdel Fatah al-Sisi in occasione dell’incontro del 9 aprile, stessa cosa avrebbe fatto il principe ereditario emiratino Mohammed bin Zayed al-Nahyan.
Nel caleidoscopio delle alleanze e dei conflitti che mutano repentinamente Haftar, accettando la fine delle ostilità, potrebbe perdere la guerra ed altri fallirebbero con lui. Vladimir Putin, persona a cui non piace fare brutte figure su scala planetaria, potrebbe ora far rientrare i mercenari russi della Compagnia Wagner e rivedere le sue posizioni, dal momento che gli apparirebbe più conveniente interagire con Erdogan.
Il presidente turco, in perenne braccio di ferro con l’alleato americano, sta invece preparando 2mila combattenti siriani (“ribelli” ma anche jihadisti) da iniettare nel conflitto libico, anche per contrastare le migliaia di mercenari sudanesi al soldo di Haftar.

Khalifa Haftar con miliziani madahkilisti.