Libia. Ultimo atto di Zeidan: bombardata la petroliera nordcoreana che acquistava il greggio dai ribelli

di Guido Keller –

morning glory grandeLo aveva detto e lo ha fatto. Seppure come ultimo gesto prima di essere licenziato dall’Assemblea nazionale costituente, Ali Zeidan ha mandato la Marina libica a bombardare la petroliera battente bandiera nordcoreana “Morning Glory”: le notizie parlano di danneggiamenti, qualche media si è spinto a riportare di un incendio a bordo, ma certo è che l’ormai ex premier della Libia ha fatto sul serio ed ha tenuto fede alla minaccia di colpire il cargo carico di 350mila barili di petrolio acquistato in modo illegale dai ribelli di al-Sidra.
La crisi è iniziata lo scorso 9 marzo, quando le milizie autonome hanno fatto arrivare la petroliera al terminale di al-Sidra, evidentemente per autofinanziarsi: infuriato, Zeidan ha minacciato che “La petroliera sarà bombardata se non rispetterà l’ordine di lasciare il porto”, controllato dai secessionisti della Cirenaica dallo scorso agosto.
Al momento la nave è bloccata dell’imboccatura del terminal, tenuta sotto tiro dalle motovedette libiche, forse nell’attesa che a Tripoli venga sbrogliata prima di tutto la situazione politica interna.
In realtà quello della “Morning Glory” non è il primo tentativo operato dai secessionisti della Cirenaica di vendere autonomamente greggio per fare soldi: il 6 gennaio la Marina libica aveva impedito a due petroliere di entrare nel porto di al-Sidra e la Noc, la Compagnia nazionale libica del petrolio, aveva reso noto che “Le forze della Marina libica hanno impedito a una petroliera battente bandiera maltese, che era in trattative con fazioni considerate illegali, di entrare nel porto di al-Sidra per caricare del petrolio”. Sempre la Noc aveva informato anche che gli armatori di un’altra petroliera, che aveva in programma di “dirigersi nel porto di al-Sedra per le stesse ragioni”, sono stati avvertiti che è “illegale” mandare imbarcazioni in quel terminale.
L’Assemblea Generale di Tripoli ha poi deliberato la creazione di una forza militare per riprendere il controllo dell’impianto, gruppo operativo che, come è stato reso noto, “sarà attivo entro una settimana”. Nuri Abu Sahmain, portavoce dell’Assemblea, ha spiegato che è necessario “liberare i terminal petroliferi e rompere l’assedio”.
La situazione potrebbe precipitare, anche perché solo due giorni fa Essam al-Jahani, membro della leadership dei ribelli, aveva dichiarato che “Abbiamo inviato forze di terra per difendere la Cirenaica a ovest di Sirte e abbiamo anche navi che pattugliano le acque regionali”. Più che di navi si tratta di pescherecci armati con mitragliatrici, ma è evidente che anche quell’area, come buona parte del territorio libico, si sottrae al controllo della capitale.
Le cose non potranno cambiare molto con il nuovo premier, il ministro della Difesa Abdullah al-Thani, il quale ricoprirà il ruolo di Primo ministro per soli 15 giorni, giusto per dare al Parlamento il tempo di scegliersi un nuovo capo dell’Esecutivo.
Alla base della sfiducia nei confronti di Zeidan la “manifesta incapacità” del premier, al suo posto da meno di una anno, ad assicurare la sicurezza nel Paese, ma, com’è già stato osservato ampiamente, è pressoché impossibile tenere sotto controllo una Libia frazionata in tribù rivali, con 500 milizie autonome che non hanno accettato l’invito a deporre le armi e a sciogliersi nell’esercito nazionale, con venti di secessione, spinte dei gruppi jijadisti, traffici illeciti nel sud del paese, proteste e violenze quotidiane e persino brigare dell’ancien regime che scorrazzano per il deserto. A Bengasi gli omicidi politici sono all’ordine del giorno, Misurata è praticamente uno stato nello stato e Derna e al-Baida sono in mano ad Ansar al-Sharia, gruppo gemello di al-Qaeda.
Ed in materia di petrolio, unica risorsa del paese, se non sono le minoranze berbera Amazig o Tuareg, o i lavoratori che non percepiscono paga da diversi mesi, sono le milizie autonome a bloccarne la produzione, cosa che sta rappresentando per le autorità di Tripoli un problema di cui non sembra vedersi la fine. Fatte le dovute concessioni agli occupanti degli impianti estrattivi di Uribe e di Mellitah, il problema si è spostato a Nalut, dove i dimostranti hanno chiuso i rubinetti dell’oleodotto di Wafa, anch’esso afferente al sistema di distribuzione di Mellitah che porta gli idrocarburi in Italia.
In novembre l’amministratore delegato di Eni, Paolo Scaroni, si era detto “preoccupato” per la situazione libica e aveva aggiunto che di idrocarburi ce ne sono molti “da tante parti del mondo” e tutta l’Italia sta godendo di clima “particolarmente benevolo”.
Tuttavia la recente crisi della Crimea ha portato lo stesso ad affermare che per il momento la crisi ucraina non avrà conseguenze sulle forniture del gas all’Italia, ma che “Prima di tutto l’Europa deve prendere atto che un continente dove l’energia costa il triplo che negli Usa ha un futuro difficile”. “E’ necessario – ha affermato Scaroni – puntare sullo shale gas e anche sul nucleare”.