L’Italia e la necessità di dotarsi nell’immediato di un obiettivo strategico

di Francesco Piacitelli

La conclusione dell’inutile (dal punto di vista italico in questo caso) campagna afgana può essere l’occasione per Roma di ripensare il suo ruolo nel mondo, affrontando quelle questioni strategiche da tempo ignorate. Un errore di valutazione è perfettamente comprensibile, ma quando ignorare sistematicamente gli interessi nazionali diviene una regola, allora significa che si è in presenza di un cortocircuito nel nostro modo di usare la forza ed indirizzare gli sforzi del paese.
Quello che manca evidentemente è la definizione ed il perseguimento di una strategia complessiva, ovvero la determinazione di obbiettivi di medio-lungo periodo sostenuti dal consenso della nazione al di là dei singoli governi o delle ideologie di moda. Una mancanza, quella appena descritta, frutto di un vivacchiare di rendita sulle spalle della potenza egemone americana, che vedeva nel Belpaese uno Stato di frontiera fondamentale nel contrastare l’Unione Sovietica e mantenere un equilibrio europeo (soprattutto ad est) e mediterraneo. La strategia americana oggi è la medesima, ovvero circondare i rivali in Eurasia e preservare il controllo degli stretti che permettono tale accerchiamento; ciò che è cambiato è la gerarchia di queste minacce, passando dalla Russia alla Cina. Questo quindi comporta come la difesa del Mediterraneo e con esso dell’Italia, pur conservando un interesse strategico, non siano prioritari. In altre parole ciò vuol dire che gli Stati Uniti accetteranno maggiore caos e potenze in competizione, rispetto a quanto accadeva in passato e, ciò che più conta per noi, rispetto a quanto sia accettabile per la nostra sicurezza nazionale. L’Italia quindi conta davvero dal punto di vista americano unicamente quando è in gioco la nostra sopravvivenza, intervenendo ad esempio per evitare che il nostro paese fallisse economicamente ed incrinasse così il controllo statunitense sull’eurozona. Questa carta però ha effetto unicamente lungo l’asse alpino-renano della nostra geopolitica, non su quello mediterraneo, da cui provengono minacce reali alla nostra sicurezza, ma non ancora alla loro. La conseguenza di questa ricostruzione è che non saranno gli Stati Uniti a disinnescare le crisi provenienti dal mare, che possiamo identificare nell’affacciarsi sul Mediterraneo di potenze aggressive e nell’instabilità del Nord Africa. La competizione fra le potenze nello specifico coinvolge principalmente Russia, Turchia e Francia, che si contendono lembi africani e balcanici nel nostro estero vicino.
Mosca, il cui unico terrore è rimanere bloccata dall’assedio americano in Ucraina, sfoga verso sud la pressione cui è sottoposta nel bassopiano sarmatico, per raggranellare influenza da spendere nei negoziati con gli statunitensi, guadagnando consenso (civili, militari o per mercenari) lungo un arco che va dalla Siria al Fezzan, passando per il Canale di Suez e la costa mediterranea dell’Egitto e sperando di guadagnare una base navale in Cirenaica. Questi avamposti nell’ottica russa sono altresì necessari per puntare all’entroterra. La Turchia invece nel pieno del suo disegno imperiale neo ottomano, ha sfruttato l’immobilismo e l’indecisione italica per buttarsi nella Libia (da usare come trampolino per l’Africa centrale) e nei Balcani (i turchi hanno di recente firmato un accordo che pone nelle loro mani le forze armate albanesi). Le preoccupazioni dell’Eliseo infine derivano proprio da quanto appena detto, ovvero perdere influenza nell’Africa, considerata da loro area esclusiva d’ingerenza francese, ed assistere ad un eccessivo rafforzamento turco dentro casa propria (ricordiamo ad esempio che gli Imam e l’apparato di culto operanti su territorio francese sono diretta emanazione di Ankara). L’avanzare di Ankara e Mosca, nonché la decomposizione che ciò comporta nel tessuto africano, non preoccupa molto l’America, poiché difficilmente si tramuterà nella creazione di zone d’influenza stabili. I tentativi di penetrazione e le conseguenti risposte però generano caos, con il quale dovremo convivere e che potrà in ogni momento essere diretto verso le coste europee più vicine, ovvero le nostre.
Roma, segregatasi ad un ruolo marginale nell’immediato, può però costruire una strategia di medio lungo periodo; ciò beninteso a patto di essere chiari e franchi con se stessi, ovvero dando avvio ad una riflessione concreta sul ruolo del nostro paese nel mediterraneo e nel Nord Africa, nonché sui mezzi, soprattutto marittimi, e le capacità disponibili. Solo a partire da questa riflessione, quindi, si potrà definire un percorso determinato che ci conduca ad un obbiettivo strategico fondamentale, ovvero impedire al caos di superare lo Stretto di Sicilia; fine raggiungibile, ritengo, unicamente passando lungo due assi strategici fondamentali. Il primo va per mare dalla Sicilia a Gibuti, dove abbiamo una base da mantenere per preservare lo sbocco nel Medioceano via Bab al-Mandab. Il secondo, invece, collega direttamente Palermo a Niamey.