di Carmine Stabile –
L’aggressione di Hamas al cuore della democrazia mediorientale rappresenta il tema centrale del conflitto: due popoli che rivendicano il possedimento dello stesso territorio. Dunque alla base del conflitto non sono presenti matrici “d’odio religioso”. Allo stesso tempo però ebraismo e islamismo non sono mai stati in grado di convivere in maniera pacifica cercando di valorizzare il contesto, anzi lo hanno soltanto aggravato. Il protrarsi del conflitto nel tempo porterà ad un aumento vertiginoso di morti, feriti ma soprattutto di sfollati, il vero emblema dei conflitti su vasta scala. I confini territoriali, come nel caso del conflitto russofono, potranno giocare un ruolo cruciale sul piano della logistica umanitaria.
L’inasprimento dello scenario risale alla nascita del Sionismo, movimento fondato alla fine dell’Ottocento da Theodor Herzl, che mirò alla costituzione di uno Stato ebraico in Palestina, già abitata dagli arabi. Con la proclamazione dello Stato d’Israele nel 1948, il conflitto si ampliò acquisendo le sembianze di una vera e propria guerra rivolta alla contesa dei territori che oggi interessano: Israele, la Striscia di Gaza e la West Bank. Attualmente gli schieramenti internazionali vedono il governo palestinese di Hamas supportato dai paesi arabi, mentre l’Israele è supportato dal mondo democratico e dagli Usa. L’occidente con l’inizio del conflitto, ha riaperto lo squarcio interno della lotta allo jihadismo che potrebbe essersi risvegliato con lo scoppio del conflitto in Medio Oriente.
Jihadismo: radici e ruolo nel conflitto israelo-palestinese.
Lo jihadismo è un’ideologia che legittima l’uso della violenza. L’ideologica si fonda sulla dottrina islamica tradizionale, ossia sulla jihad intesa come “guerra santa”. Immedesimando un organigramma, al vertice si trova la rete di al-Qaeda e l’autoproclamato stato islamico che sono i rappresentanti dei gruppi jihadisti. Il modello jihadista è stato assorbito dai paesi musulmani nel corso del tempo, che sono stati in grado normalizzarlo all’interno del loro ordine sociale come: fenomeno qualitativamente importante. La sfera sociale e religiosa hanno costituito la ragione che determina il sacrificio di questi soggetti all’azione terroristica. Alla luce di quest’analisi, oggi è difficile pensare che non ci sia assonanza tra Hamas e jihadismo, vista la coincidenza degli eventi contro il mondo occidentale a distanza di poche ore. La strategia stragista resta sempre la stessa: ripulire l’Occidente dagli infedeli attraverso la guerra santa.
Allarme jihadismo. Europa sotto scacco.
I governi europei e i partner atlantici, dal 2001, hanno intensificato il focus sulla prevenzione delle forme di radicalizzazione violenta. In Europa il primo episodio di matrice islamica, fu registrato nel 2004 a Madrid. In questi anni si è affermata l’antifona Islam-jihādismo. Il fenomeno terroristico è correlato ad uno stampo di natura prettamente religiosa, intrinseco ad evidenti ragioni di natura sociale. Il 5% della popolazione europea è di fede islamica, questo dato fa da trampolino all’incremento del tasso di radicalizzazione jihadista in Europa, classificando la zona europea come area ad elevato rischio attentati.
Rapporto Islam-Italia. Cosa succede?.
Con circa due miliardi di fedeli nel mondo, attualmente l’Islam risulta essere il secondo credo religioso più professato. In base allo studio del centro di ricerca statunitense “Pew Research Center” di Washington, entro il 2070 il 10% della popolazione europea sarà musulmana, diventando la religione più professata. Dai dati Istat, oggi in Italia il 26,3% della popolazione è di fede musulmana. La crescita della cultura islamica nel nostro paese, è correlata all’aumento del tasso d’immigrazione che è pari al +28,6%. I principi per una corretta integrazione dell’Islam in Italia furono attuati l’1 febbraio 2017, grazie ad una cooperazione trilaterale tra il ministro dell’Interno Marco Minniti, le principali organizzazioni islamiche in Italia e Paolo Naso, coordinatore del Consiglio per i rapporti con l’islam. Il risultato della cooperazione fu la sigla del “Patto nazionale per un Islam italiano”, dove in virtù degli art. 2,3,8,19 della Costituzione, lo stato italiano si impegnò a tutelare tutte le forme di libertà. L’obiettivo di tale accordo fu quello di migliorare e rafforzare il dialogo tra le istituzioni e le comunità islamiche presenti nel nostro Paese, favorendo il percorso d’integrazione nel rispetto dei principi di legalità e sicurezza; perseguendo un’unica finalità comunitaria: la convivenza armoniosa delle comunità islamiche e degli immigrati nella nostra società.
Il ruolo strategico del Cairo nella crisi.
Attualmente l’Egitto sembra poter essere l’unico attore della regione mediorientale in grado di poter instaurare un dialogo con ambo le parti, in virtù dei buoni rapporti diplomatici. Tel Aviv e Il Cairo vantano ottimi rapporti in seguito agli accordi di Camp David del 1979, in cui Il Cairo, divenne il primo paese arabo a riconoscere l’integrità dello stato ebraico. Mentre con Gaza, la diplomazia si ristabilì nel 2015, grazie all’annullamento della sentenza da parte della corte egiziana, in cui Hamas fu dichiarata organizzazione terroristica.
L’elemento di svolta del conflitto, rappresentato dal governo egiziano, si chiama: varco di Rafah. Si tratta di una frontiera interposta tra il confine egiziano e la Striscia di Gaza, unica porta d’ingresso al conflitto, in grado di regolare sia il flusso dei profughi in uscita e sia il flusso dei beni di prima necessità in entrata. Ma il governo egiziano sta temporeggiando sull’apertura totale della frontiera, visto che ciò creerebbe per Egitto una triplice problematica, legata a problemi di carattere: economico, politico e storico. La problematica principale è quella storica e risale alla guerra dei sei giorni del 1967. Questo conflitto registrò una vittoria schiacciante per Israele ai danni dei vicini arabi, portando alla confisca della penisola del Sinai e della Striscia di Gaza all’Egitto, della Cisgiordania e di Gerusalemme Est alla Giordania e delle alture del Golan alla Siria. I postumi di questo conflitto, causarono una forte instabilità per l’Egitto, provocando un esodo massiccio di rifugiati, lo stesso esodo che oggi Il Cairo teme aprendo la frontiera di Rafah. La causa politica è di natura frontaliera, legata alla problematica delle possibili incursioni da parte dei gruppi terroristici provenienti dalla Libia a ovest e dal Sudan a sud.
Infine, l’ultimo problema riguarda la sfera economica, vista la disastrosa situazione che sta attraversando il Paese, dove un terzo della popolazione vive in uno stato di povertà assoluta. L’Egitto dovrà essere in grado di ponderare nel migliore dei modi, le scelte strategiche sul piano della politica estera, visto il futuro scenario politico che attende l’urna presidenziale il prossimo dicembre; in cui il presidente al-Sisi dovrà essere in grado di tutelare un’eventuale debolezza istituzionale e politica del Paese.