Michail Gorbacev: riflessioni di un democratico

di Giovanni Ciprotti –

gobaciov libro fuoriSemplicemente “Gorby”. Così ci eravamo abituati a chiamarlo e a sentirlo chiamare in tutto il mondo. Un nomignolo affettuoso, quasi fosse stata una persona di famiglia.
Eppure lui, Michail Gorbacev, era a quel tempo tra gli uomini più potenti del pianeta. Dal marzo 1985 segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, occupava la stessa poltrona che era stata di Josif Stalin, Nikita Kruscev e Leonid Breznev. Nello stesso periodo alla Casa Bianca, al suo secondo mandato presidenziale, sedeva Ronald Reagan, anticomunista sanguigno che solo due anni prima aveva riacceso il fuoco della Guerra fredda definendo l’URSS “Impero del male”. Poi al Cremlino era arrivato Michail Gorbacev, un uomo giovane (54 anni) per i canoni della nomenklatura sovietica, il quale tra la sorpresa e lo sconcerto generali aveva da subito avviato importanti riforme interne e definito nuovi canoni per la politica estera sovietica.
Nel giro di pochi anni riuscì a superare l’iniziale, comprensibile scetticismo del presidente degli Stati Uniti e a collaborare con lui per migliorare i rapporti tra le due superpotenze dell’epoca: il risultato fu la limitazione della corsa agli armamenti nucleari, la riduzione delle forze convenzionali stanziate nell’Europa centrale e orientale, il ritiro delle truppe sovietiche dall’Afganistan e il ripudio della cosiddetta “dottrina Breznev”, in base alla quale l’URSS si arrogava il diritto di intervenire anche militarmente nelle vicende interne dei Paesi membri del Patto di Varsavia.
Sul piano interno le riforme di Gorbacev, sintetizzate nelle parole d’ordine “perestrojka” (ristrutturazione) e “glasnost” (trasparenza), tendevano a democratizzare il sistema sovietico, nell’intento di rinnovarlo senza distruggerlo. Le vicende avrebbero preso una piega diversa da quella sperata dall’ispiratore del nuovo corso riformatore: nel dicembre 1991 l’URSS cessava di esistere, Gorbacev si dimetteva dalla carica di presidente assunta l’anno precedente ed iniziava l’era di Boris El’cin.
Da quelle vicende prende le mosse l’ultimo libro di Michail Gorbacev, “Il nuovo muro”, nel quale l’autore ripercorre soprattutto la storia della sua Russia negli ultimi trent’anni, ma nel farlo finisce inevitabilmente per riflettere sulla evoluzione dei rapporti internazionali e sulle più importanti questioni globali ancora irrisolte, dai conflitti armati al terrorismo al degrado ambientale.
Dopo le dimissioni da presidente dell’URSS, Gorbacev non ha più ricoperto alcuna carica pubblica, ma non ha mai rinunciato, è lui stesso a sottolinearlo, ad occuparsi di politica. Dalla sua posizione di presidente della Fondazione di studi socio-economici che porta il suo nome e di presidente della Green Cross International, nata su sua iniziativa per occuparsi di questioni legate all’ambiente, non ha mai smesso di riflettere ed intervenire sulle vicende politiche del suo Paese così come sulle questioni più spinose dell’agenda internazionale.
Anche il nuovo libro è scritto con l’intento di contribuire alla comprensione della società odierna e alla individuazione di soluzioni ai problemi che abbiamo di fronte. Prima di agire, però, è importante capire le dinamiche dei fenomeni, le cause all’origine dei conflitti e i legittimi interessi delle parti.
Buona parte del libro è dedicata alla ricostruzione e alla interpretazione dei passaggi più significativi della politica russa negli ultimi venticinque anni. Gorbacev difende la validità della filosofia alla base delle sue riforme, pur riconoscendone i limiti e gli errori commessi all’epoca, e offre un giudizio sui leader che, dopo la dissoluzione dell’URSS, si sono avvicendati come Presidenti della Federazione russa.
E’ netta la stroncatura di Boris El’cin, dipinto come uno statista dalle scarse qualità politiche, colpevole a suo dire di aver attuato acriticamente una politica economica basata sui criteri imposti dall’Occidente (la cosiddetta “Terapia d’urto”), che ha avuto come conseguenze il peggioramento delle condizioni di vita della stragrande maggioranza della popolazione, mentre pochi oligarchi si spartivano indisturbati le ricchezze del Paese, il progressivo deterioramento del prestigio della Russia sullo scenario internazionale ed infine, nel 1998, il default del Paese.
Più articolato il giudizio su Vladimir Putin, al quale viene riconosciuto il merito di aver risollevato l’economia russa e restituito credito internazionale al Paese. Alle luci, tuttavia, si affiancano le ombre originate dai metodi utilizzati: gli ostacoli posti sul cammino delle forze politiche di opposizione, il controllo governativo dei mezzi di informazione, i meccanismi elettorali non sempre limpidi e gli escamotage per garantirsi la permanenza al potere, come ad esempio la staffetta con Dmitrij Medvedev.
La critica più dura che Gorbacev muove a Putin, in altre parole, è quella di non aver promosso alcun processo di democratizzazione della società russa, un processo iniziato con la perestrojka e bruscamente interrotto negli anni Novanta.
Dalle vicende interne russe l’orizzonte si allarga ed è inevitabile parlare della Russia sia per il modo in cui percepisce sé stessa sul proscenio internazionale sia per il rapporto altalenante con l’Occidente in generale, ma in primo luogo con gli Stati Uniti.
Su questo piano Gorbacev è molto netto e non lascia adito a dubbi sulla sua valutazione complessiva dei rapporti tra Russia e Occidente: all’indomani della scomparsa dell’URSS, l’amministrazione statunitense sembrava sulle prime non voler infierire sul nemico sconfitto; successivamente si è verificata una trasformazione nei rapporti con la Russia, che da possibile partner da aiutare a risollevarsi è divenuto semplicemente un grande mercato da sfruttare per le opportunità economiche che offriva alle imprese occidentali, multinazionali statunitensi in primis.
In questo mutato quadro dei rapporti est-ovest, ha inciso in maniera non positiva il processo di ampliamento della NATO, che ha progressivamente incluso la maggior parte degli Stati che un tempo avevano fatto parte del Patto di Varsavia, l’organizzazione militare contrapposta a quella occidentale:
“la generazione di uomini politici succeduta alla nostra non è stata in grado di consolidare la sicurezza in Europa e nel mondo. L’errore più grave, in tal senso, è stata la decisione di ampliare il raggio d’azione della NATO e l’usurpazione da parte di quest’ultima del ruolo di garante della sicurezza, e non solo in Europa, ma anche al di là dei suoi confini.”
Tra gli anni Novanta e i primi quindici anni del nuovo millennio le diverse amministrazioni statunitensi avrebbero mostrato al mondo di privilegiare l’azione unilaterale negli affari internazionali, tendenza culminata, durante la presidenza di George W. Bush, con l’emanazione della Strategia di Sicurezza Nazionale USA del 2002 e l’invasione dell’Iraq del 2003.
Una condotta che Gorbacev ritiene inadatta perché non è in grado di risolvere problemi complessi e al contrario rischia di generarne di nuovi:
“Il problema della militarizzazione della politica e quello della economia su scala globale, che storna risorse utili dall’economia reale, incentiva i conflitti, induce a ricercare illusorie soluzioni militari e non politiche dei problemi che si stanno moltiplicando.”
Alla fine del suo ragionamento, Michail Gorbacev si interroga su quali elementi fondare un nuovo modello di sviluppo e di “governance globale”. La sua risposta può essere sintetizzata così: socialdemocrazia (“il mercato finché riesce, lo Stato finché serve”), solidarietà e cooperazione.
L’aver relegato per troppo tempo la Russia nella posizione di nazione di secondo piano ed averla sospinta ai margini dello scenario internazionale non ha aiutato a governare i fenomeni che stanno mettendo a dura prova diverse aree geografiche. Lo dimostra ad esempio la vicenda sul nucleare iraniano, che ha per anni segnato il passo finché al tavolo dei negoziati non è stata ammessa anche la Russia.
L’assetto demografico e sociale europeo rischia di essere stravolto dalla ondata di profughi che, via mare, approdano sulle nostre coste e chiedono asilo politico e protezione. L’Unione europea vive un momento caratterizzato da tensioni tra Stati membri che stanno mettendo a dura prova il grado di coesione della Unione. Il terrorismo di matrice islamica colpisce in ogni continente. I governi sembrano arrancare per mettere in campo azioni che hanno come unico possibile risultato la gestione delle emergenze. Se lo straordinario flusso di profughi e gli attentati terroristici hanno origine nelle vicende libiche, siriane o irachene, la risposta della comunità internazionale non può essere innanzitutto e soltanto bombardamenti aerei.
All’indomani dell’attentato alle Torri Gemelle, Michail Gorbacev espresse solidarietà al popolo americano e aggiunse queste parole: “Non possiamo permetterci di sprecare una seconda volta la possibilità di dar vita a un ordinamento nuovo, come è già successo negli anni Novanta. Nel nostro vocabolario politico non esistono più le voci “solidarietà” e “cooperazione” in merito alla lotta alla povertà e all’arretratezza nei Paesi del Terzo mondo: questo è un fatto. Tornare a includere tali obiettivi nel nostro ordine del giorno significherebbe unire gli sforzi delle nazioni e dei popoli, rappresentanti di culture diverse e di diversi gradi di sviluppo economico e politico.
Se la lotta al terrorismo dovesse condurre soltanto a dimostrazioni di forza, sarebbe la pace, a lungo andare, a rimetterci. Se invece ne faremo una delle azioni mirate alla costruzione di un assetto mondiale giusto, ne usciremo tutti vincitori.”
Finora non sembra che qualcuno lo abbia ascoltato.

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