Sahel: i 4 motivi dell’attrazione per Putin

di Francesco Giappichini

Negli ultimi anni, think tank di ogni dove hanno sviscerato le origini dell’astio africano verso la presenza francese nel Continente nero: un atteggiamento culturale, da alcuni definito “francofobia”. Non uguale impegno è stato profuso per capire le ragioni dell’attrazione verso la Russia e il presidente Vladimir Putin: una seduzione politica che ha coinvolto in primis i Paesi francofoni, specie quelli della regione del Sahel. Comunque, secondo i più autorevoli centri studi, sono quattro le radici del sentimento filorusso nella cosiddetta “Russiafrique”. La prima risale ai tempi della decolonizzazione e della Guerra fredda: sin dal ’50, l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (Urss) strinse forti legami con vari Paesi africani, sostenendoli nella lotta per l’indipendenza.
“L’Urss ha addestrato il nuovo esercito maliano dopo l’indipendenza e ha istituito una scuola per dipendenti pubblici. Oggi molti agenti e soldati parlano russo”, ha spiegato Boubacar Haidara, ricercatore presso l’Istituto di studi politici di Parigi. Un impegno che, da parte di Mosca, non è venuto meno neppure dopo la dissoluzione dell’Urss. Lo dimostra il caso del colonnello Sadio Camara, il ministro della Difesa del Mali. Questi, che in passato trascorse un anno presso il Moscow higher combined arms command school, è considerato tra i principali organizzatori del golpe del ’20, e tra i più attivi promotori della cooperazione militare Mosca-Bamako.
La seconda ragione si fonda invece su una percezione: gli africani non giudicherebbero come neocoloniale l’impegno di Mosca nell’area. “La Russia ascolta i nostri reali bisogni, non ci impone nulla in cambio. Non schiera soldati sul nostro terreno e se abbiamo bisogno di armi, ci dà armi”, ha dichiarato Issoufou Niamba, portavoce della Coalition des patriotes africains section du Burkina Faso. Ovviamente a emergere è anche la volontà della Russia di non apparire una potenza coloniale: così il proprietario del Gruppo Wagner, Evgenij Prigožin, ha definito il golpe in Burkina Faso come “una nuova era di decolonizzazione”, e ha denominato Assimi Goïta, il presidente del Mali, come il “Che Guevara africano”.
Mosca si fa così sostenitrice dell’ideologia panafricanista: secondo Alain Antil, dell’Institut français des relations internationales (Ifri), un “mondo multipolare, dove gli occidentali non governano tutto, è la lotta comune di russi e panafricanisti”. La terza ragione ha a che vedere con la sofisticata propaganda russa, che non si limita alle campagne di disinformazione e manipolazione, sui social network o i media locali (proverbiali le vignette anti francesi). Si cerca soprattutto di sostenere e finanziare gli influencer-attivisti filorussi, specie i più estremisti. Dalla svizzera-camerunense Nathalie Yamb, “La dame de Sochi”, sino al franco-beninese Kémi Séba: ovvero, il teorico della “panafricanité” e della “de-francesizzazione”. Questi, al secolo Stellio Stélio Gilles Robert Capo Chichi, è stato condannato per incitamento all’odio razziale, mentre il suo movimento Tribu Ka fu sciolto per antisemitismo. La quarta ragione risiede nella difesa di un modello conservatore, che nei fatti è quello di gran lunga preferito dall’opinione pubblica del Sahel: Mosca, spiega Antil, sostiene “i valori sociali e familiari tradizionali, in opposizione alle democrazie liberali percepite come decadenti. Per alcuni, vedere che gli aiuti allo sviluppo sono subordinati a progetti su questioni di genere o Lgbt+ è uno shock”.