Terrorismo. Campi di internamento in Europa?

di Giovanni Ciprotti

guantanamoIl governo francese ha chiesto al Consiglio di Stato un giudizio di costituzionalità sulla ipotesi di creare dei campi di internamento per detenere, a scopo preventivo, quei cittadini schedati con la “fiche S” che potrebbero essere intenzionati a compiere atti terroristici.
La notizia ha suscitato reazioni diverse e non poche critiche, tanto che il primo ministro Maniel Valls ha immediatamente precisato che la paternità della proposta va attribuita ai partiti di opposizione. Che sia vero oppure no conta relativamente poco. E’ da sottolineare invece un’iniziativa, sul cui grado di legalità si esprimerà l’autorità competente, originata dallo stato di tensione e di emergenza che la Francia e più in generale l’Europa, sta sperimentando dopo il massacro di Parigi del mese scorso.
Molti i dubbi sollevati: chi deciderà per l’isolamento dei sospetti? E su quali basi giuridiche? E ancora, chi valuterà la durata del periodo di internamento preventivo e rispetto a quali criteri? Il provvedimento sarebbe limitato, tra i soggetti schedati, ai soli cittadini francesi, oppure esteso anche a quelli europei, o magari solo a chi è transitato per i cosiddetti “Paesi a rischio”? E se la persona sospetta, poi internata, non avrà la cittadinanza francese, quale normativa regolerà i rapporti tra l’ambasciata del paese di origine del sospettato e quella francese, che non potranno evitare di confrontarsi sul caso specifico?
Un groviglio di rebus giuridici da sbrogliare, ma che rappresenta soltanto la punta dell’iceberg. L’idea di adottare un provvedimento così restrittivo della libertà personale costituisce per tutti i cittadini europei un campanello d’allarme circa gli effetti che la lotta al terrorismo tra Paesi sovrani e una organizzazione potente e spietata come l’Isis sta producendo e potrà ancora produrre sui nostri diritti di cittadinanza.
Dopo gli attentati del 2001, l’amministrazione Bush volle il Patriot Act e aprì la prigione di Guantànamo, dove i combattenti qaedisti furono imprigionati, sottoposti a trattamenti brutali e tenuti illegalmente in una condizione di extra-territorialità nella quale non era rispettata la Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra in quanto non venivano riconosciuti come militari di un Paese nemico né potevano usufruire dell’istituto della difesa come qualsiasi imputato in un processo penale. Gli ipotizzati campi di internamento francesi non sembrano però ricalcare il modello del campo di prigionia di Guantànamo. In quest’ultimo non sono stati reclusi cittadini americani mentre l’ipotesi ventilata per i campi francesi riguarderebbe in primo luogo cittadini transalpini schedati come sospetti “jihadisti”, prevalentemente di religione islamica e origini mediorientali o nordafricane. Inoltre, mentre nella prigione statunitense a Cuba finivano soprattutto guerriglieri islamici catturati in Iraq o in Afganistan, i campi di internamento francesi dovrebbero detenere persone schedate ma che non hanno ancora commesso azioni di tipo terroristico e spesso neanche reati comuni.
C’è forse un precedente storico: riguarda le comunità giapponesi negli Stati Uniti che durante la Seconda guerra mondiale furono internate in campi di concentramento per decisione della Casa Bianca.
Prima ancora dell’entrata in guerra degli Stati Uniti, i cittadini di nazionalità giapponese, italiana e tedesca sul territorio statunitense erano stati dichiarati “enemy aliens” e sottoposti ad una vigilanza particolare. Nell’ottobre del 1941 Curtis B. Munson, un funzionario del Dipartimento di Stato, stilò un rapporto sul grado di lealtà dei nippo-americani. Nel rapporto le persone di origine giapponese vennero distinte in quattro categorie: gli “issei”, la prima generazione; i “nisei”, la seconda generazione, che avevano ricevuto una educazione americana; i “kibei”, la seconda generazione, che avevano ricevuto una educazione prevalentemente od esclusivamente giapponese; i “sansei”, la terza generazione, per lo più bambini. Il rapporto Munson forniva un identikit per ciascuna categoria di nippoamericani, specificando per ognuna il prevedibile grado di fedeltà al Giappone.
L’attacco giapponese a Pearl Harbor, avvenuto il 7 dicembre 1941, e la pressione della pubblica opinione portarono Franklin Delano Roosevelt a firmare, il 19 febbraio 1942, l’Executive Order n. 9066, per effetto del quale più di 110mila tra giapponesi residenti negli Usa e cittadini americani di origine nipponica (si stima che circa il 75% fossero cittadini americani, “nisei” o “sansei”) che vivevano lungo la costa statunitense del Pacifico furono internati in “campi di reinsediamento del periodo di guerra” appositamente allestiti. I contenuti del rapporto Munson furono ignorati e il trasferimento coatto riguardò indistintamente “issei” e “nisei”. La loro detenzione durò fino alla fine della Seconda Guerra mondiale. Alla fine degli anni Ottanta, dopo il pronunciamento del Congresso e la firma di Ronald Reagan del Civil Liberties Act, i sopravvissuti tra gli internati ricevettero dal governo americano una lettera ufficiale di scuse e 20mila dollari a titolo di risarcimento: il riconoscimento tardivo di un abuso, perpetrato con il pretesto di garantire la sicurezza nazionale.