Ucraina. La controffensiva sta fallendo, ora lo dicono anche a Kiev

di Enrico Oliari

Che la controffensiva degli ucraini, armati e finanziati da Bruxelles e da Washington, sia fallita, lo ripetono da settimane i media non allineati e non finanziati dai governi. Oggi però il flop ha assunto ufficialità, dopo che il segretario del Consiglio per la sicurezza nazionale e la difesa ucraina Oleksii Danilov ha dichiarato alla Bbc che i progressi sono stati assai modesti, “le nostre speranze non si sono concretizzate”.
Da giugno infatti l’esercito ucraino è riuscito a liberare solo 14 villaggi nelle regioni di Zaporizhzhia e Donetsk, mentre i russi non solo hanno resistito, bensì sono passati all’attacco in altri punti del fronte.
Il comandante in capo ucraino Valerii Zaluzhny l’ha buttata sul fattore innovativo della guerra, affermando che “i libri di guerra, anche quelli della Nato dovrebbero essere dati agli archivi”.
Così se su Telegram il presidente ucraino Volodymir Zelenzky ha testé annunciato trionfalmente che “il gruppo d’assalto della 24ma brigata meccanizzata (…) ha riconquistato uno dei territori occupati all’interno dell’insediamento di Horlivka, nella regione di Donetsk, e vi ha piantato la bandiera ucraina”, il capo dell’amministrazione della regione occupata di Zaporizhzhia, Yevgeny Balitsky, ha riportato sempre nella giornata odierna che “Le nostre unità sono avanzate significativamente a nord-est di Novopokrovka”.
Fatto sta che i proclami dei leader occidentali, quelli che pur di avere la sgangherata Ucraina nell’Ue e soprattutto nella Nato hanno provocato l’aggressione russa, continuano a sciogliersi come i soldi nelle tasche degli europei, e vien da chiedersi su quale pianeta vivono personaggi del calibro di Mario Draghi, che da presidente del Consiglio italiano affermava nel 2022 all’Onu che “Le sanzioni che abbiamo imposto a Mosca hanno avuto un effetto dirompente sulla macchina bellica russa, sulla sua economia. La Russia fatica a fabbricare da sola gli armamenti di cui ha bisogno, poiché trova difficile acquistare il materiale necessario a produrle. Il Fondo Monetario Internazionale prevede che l’economia russa si contragga quest’anno e il prossimo di circa il 10% in totale, a fronte di una crescita intorno al 5% ipotizzata prima della guerra. L’impatto delle misure è destinato a crescere col tempo, anche perché alcune di esse entreranno in vigore solo nei prossimi mesi. Con un’economia più debole, sarà più difficile per la Russia reagire alle sconfitte che si accumulano sul campo di battaglia”.
Se da un lato i media occidentali hanno intriso le case degli europei di informazioni più o meno imparziali, dall’altro c’è la realtà di una Russia che non solo è ancora lì, ma che sta lavorando per fare dei Brics+ un G7 dei grandi esclusi (cioè la metà della popolazione mondiale), cosa che rende il mondo multipolare e non assoggettato ai diktat di Washington.
Il quotidiano La Stampa ha ripreso ieri le notizie riportate dal quotidiano russo Izvestia, fondato nel 2017 e dal 2005 di proprietà di Gazprom, che rifacendosi a diverse fonti ufficiali vede per i primi sei mesi del 2023 una forte riduzione dei guadagni delle grandi società russe, compresa la stessa Gazprom, che avrebbe perso ricavi per il 36%. Lo tesso quotidiano italiano nota che occorrono 100 rubli per comprare un dollaro, le spese militari sono al 4%, l’inflazione al 7,5%. Eppure Putin è ancora lì, e i pronostici dicono che ci sarà ancora dopo le elezioni del 17 marzo.
Dall’altro lato c’è il presidente ucraino Zelensky, re della comunicazione e capo di un paese invaso, che oggi è tornato a Washington per incontrare Joe Biden e ottenere altri 175 milioni di dollari. Fino ad oggi sono 113 i miliardi di dollari dei contribuenti statunitensi finiti a Kiev, ed aumentano sempre di più le voci che accusano un pozzo senza fondo, una spesa sempre meno sostenibile.
E’ evidente che la guerra muove denaro, con gli europei che vendono agli ucraini armamenti vetusti per comprarne di nuovi magari proprio dagli Usa, primi produttori al mondo di armi, in cambio della spartizione della torta della ricostruzione.
Tuttavia viene da chiedersi se il disastro, il collo dell’economia e l’indebitamento da qui all’eternità dell’Ucraina valessero davvero l’entrata nella Nato di un paese ex sovietico e abitato per metà da russofoni, nonché l’affossamento degli accordi di Minsk-2, che impiegavano Kiev a riconoscere entro il 2015 le autonomie del Donbass.
Forse più che chiudere i giornali in lingua russa e proibire l’uso del russo nei pubblici uffici per soddisfare la russofobia isterica dell’occidente, il governo di Kiev avrebbe dovuto dare valore e capitalizzare la propria neutralità.