di Giuseppe Gagliano –
L’attacco russo che ha colpito la delegazione dell’Unione Europea a Kiev non è stato solo un episodio militare, ma un gesto politico calcolato. Due missili esplosi a pochi metri dagli uffici dell’UE hanno trasformato la rappresentanza diplomatica in un simbolo vulnerabile. Bruxelles ha reagito convocando l’ambasciatore russo, mentre Kaja Kallas e Ursula von der Leyen hanno parlato di escalation deliberata, di un atto di scherno verso gli sforzi di pace. In realtà Mosca ha lanciato un messaggio: nessun attore esterno è immune dal conflitto ucraino, nemmeno l’Unione che finora si è limitata a sostenere Kiev con armi, fondi e sanzioni.
L’attacco, composto da centinaia di missili e droni, mostra la capacità russa di mantenere pressione costante su Kiev nonostante due anni e mezzo di guerra e sanzioni. La Russia dimostra di poter colpire non solo infrastrutture ucraine, ma anche obiettivi simbolici di rilievo internazionale. L’aspetto più inquietante è l’asimmetria: mentre Mosca bombarda la capitale ucraina, l’Occidente continua a discutere di forniture militari, di linee rosse e di sistemi di difesa. Le dichiarazioni europee di trasformare l’Ucraina in un “porcospino d’acciaio” restano, per ora, più retorica che realtà.
Von der Leyen ha promesso un nuovo pacchetto di sanzioni, il diciannovesimo, e l’utilizzo dei profitti derivanti dagli asset russi congelati in Europa. Si tratta di circa 210 miliardi di euro, una cifra enorme che però non può essere toccata integralmente senza rischiare di violare il diritto internazionale. La scelta di agire sui rendimenti finanziari, piuttosto che sul capitale stesso, rivela i limiti legali e politici dell’arma economica. Allo stesso tempo, la Russia ha dimostrato di aver trovato vie alternative: il commercio con India, Cina e Paesi emergenti ha ridotto l’impatto delle sanzioni. L’economia di guerra di Mosca, pur sotto stress, continua a finanziare l’offensiva.
L’attacco a Kiev arriva mentre von der Leyen avvia un tour nei Paesi dell’UE confinanti con Russia e Bielorussia: Finlandia, Stati baltici, Polonia, Bulgaria e Romania. L’obiettivo è rassicurare gli alleati orientali e spingerli ad aumentare la spesa militare. L’impegno europeo di portare il bilancio della difesa al 5% del PIL entro il 2035 segna una rivoluzione strategica. Ma la realtà economica racconta altro: disavanzi pubblici, debiti in crescita e una base industriale ancora insufficiente. L’Europa rischia di restare prigioniera di promesse difficili da mantenere, mentre Trump spinge per una ripartizione più equa dei costi all’interno della NATO.
Il Cremlino, tramite Peskov, ha ribadito di essere disposto a proseguire i colloqui di pace, pur mentre lancia missili sulla capitale ucraina. Una contraddizione solo apparente: per Mosca, la forza militare è parte integrante della diplomazia. Colpire Kiev e la delegazione UE serve a trattare da una posizione di vantaggio. Le proposte di tregua aerea, avanzate da Minsk, restano senza risposta, segno che nessuno dei contendenti intende fermarsi. Nel frattempo, Zelensky chiede garanzie di sicurezza concrete e coinvolge Ankara per un ruolo nel Mar Nero, segnalando che l’Ucraina guarda oltre l’UE per consolidare la propria difesa.
L’attacco alla missione europea dimostra che la guerra non è più confinata al territorio ucraino: diventa un confronto diretto tra Russia e Unione Europea. Colpire l’UE significa indebolire la sua credibilità come attore geopolitico. Significa anche testare la capacità europea di reagire, non solo con parole e sanzioni, ma con una politica di sicurezza autonoma e coerente. Se Bruxelles non saprà trasformare la solidarietà in potenza reale, il rischio è che l’UE resti spettatore della propria marginalizzazione, mentre Washington e Mosca decidono le sorti della regione.












