Uno sguardo negli occhi dei superstiti di Mariupol

a cura di Rossella Maraffino

Le sanguinose battaglie di Mariupol’ e il battaglione Azov continuano a essere una tematica discussa in maniera controversa nei media occidentali. Abbiamo raccolto delle testimonianze tra i sopravvissuti dell’area urbana a ridosso di Azovstal, l’acciaieria teatro di una delle più agguerrite battaglie del conflitto in Donbass.

Il nazismo “ad sensum” nei media occidentali.
La tempesta di polemiche sulla mostra fotografica allestita a Milano per onorare i volontari del Battaglione Azov va inquadrata in un contesto manipolatorio di virtuosismi semantici, i quali, dall’inizio dell’operazione speciale, risuonano nei media occidentali quasi con la stessa frequenza e con gli stessi tonfi sordi dei combattimenti stessi.
Già da febbraio 2022 regna confusione tra chi dei due contendenti debba essere “denazificato”: gli ucraini, autoeletti prosecutori delle nuove SS, o Putin, designato senza riserve a nuovo Führer euroasiatico. Osserviamo con l’avvicendarsi dei mesi e degli scontri due significativi fenomeni linguistici: da un lato, il termine “nazista” viene risemantizzato in termini funzionali a una narrazione mediatica smart e poco approfondita, restringendo il suo campo di significato sul basico, semplificativo concetto di “cattivo”. Dall’altro il nazista può diventare, nel campo della stessa testata o addirittura della stessa penna, un partigiano, un eroe positivo della resistenza. Questo è il triste destino mediatico che l’occidente ha riservato ai volontari del Battaglione Azov, da anni attivi nel rivendicare la loro appartenenza a un’ipotetica Europa sovrana e nazionale, la quale, dal suo canto, non sembra però essere così interessata a riconoscergli lo sforzo.

(Foto: NG / Rossella Maraffino).

La nascita, i crimini e la capitolazione dei partigiani dell’Azovstal.
Mariupol’ rappresenta un punto cruciale nel conflitto tra Ucraina e Russia, fin dai primi giorni dei moti di indipendenza del Donbass nel 2014. Dopo gli accordi di Minsk, la città diventa una sorta di confine tra i territori ucraini e le nuove repubbliche autonome: la presenza ucraina in città viene rafforzata da Kiev, contribuendo così a cambiare la composizione etnica e linguistica degli abitanti, tanto da costringere molti russofoni a dover emigrare altrove. In questo contesto il “Battaglione Azov” raccoglie i suoi seguaci e stabilizza le sue forze: una milizia di volontari paramilitare, che aduna i suoi adepti tra le frange dei movimenti nazionalisti più estremi. Un nazionalismo che da un lato, seppur apparentemente in maniera legittima, lotta per tutelare i confini ucraini, dall’altro non sembra voler tener conto della costituzione storica e della condizione imprescindibile dello Stato ucraino stesso: la multietnicità e la convivenza storica di due popoli, quello ucraino e quello russo.
Gli anni che intercorrono tra il 2015 e il 2021 sono costellati da una miriade di testimonianze di abusi, torture, stragi di civili, reati a base ideologica, riportati sia dai media di organizzazioni umanitarie come Amnesty International, che da report di istituzioni del calibro delle Nazioni Unite: le stesse voci delle autorità internazionali che, con il decorrere del tempo man mano sono andate ad affievolirsi, fino a diventare alcune tra le grandi assenti da febbraio del 2022 in poi.
Questo silenzio diventa assordante all’inizio dell’operazione speciale, quando la Russia avanza velocemente verso Mariupol. La città diviene così presto teatro di scontri all’ultimo sangue, imbottigliando di fatto i cittadini di Mariupol’ nei posti di blocco controllati dai membri del Battaglione Azov che, forti dello scudo dei civili, man mano ritira prima nel centro storico, poi nelle acciaierie, tra cui la famosa Azovstal. La situazione umanitaria nei primi mesi del 2022 si deteriora rapidamente, con carenze di servizi essenziali a causa dei danni dovuti alle battaglie che, ad aprile 2022, arrivano a essere condotte letteralmente porta a porta. Nonostante la capitolazione fosse prossima e prevedibile, i militari dell’Azov rifiutano la resa, tenendo così di fatto in ostaggio migliaia di civili, asserragliati alla meglio nelle case contrassegnate da scritte “ljudi” (“[qui ci sono] persone”): un disperato grido di pietà nei confronti di chi non voleva proprio saperne di capitolare, anche a costo delle vite dei cittadini. Cittadini russofoni, si intende: il dubbio del movente etnico appare ormai legittimo, se non agli osservatori internazionali di diritti umani, almeno agli occhi di chi vive dal 2014 in un clima di terrore e restrizioni perpetrate proprio da chi, a gran voce, si batte per la tutela del “proprio” popolo dall’invasore.

(Foto: NG / Rossella Maraffino).

La vita a ridosso dell’Azovstal.
Ad agosto 2023 Mariupol’ si mostra spaccata in due: da una parte, le rovine livide e le evidenti conseguenze ambientali dei lunghi mesi di battaglie; dall’altra, i ferventi lavori di ricostruzione in mano alle ditte moscovite. La stessa acciaieria Azovstal è in fase di bonifica: la grande strada che la costeggia, severamente colpita dai bombardamenti, viene abbattuta e sostituita con una gemella parallela. La lingua del quartiere рrimorskij che sporge sull’acciaieria è fermo a maggio ‘22: una lunga inerpicata di viuzze non battute, crateri nelle poche strade asfaltate, casette devastate, riparate alla buona con ferraglie e l’onnipresente eternit. In questo scenario post-catastrofe, all’ombra degli arbusti sulla riva siedono Tamara, suo marito Vadim e alcuni vicini di casa, in un silenzio spezzato solo dalla risacca. Risacca tormentata quella del mar d’Azov, che riporta a riva tra le conchiglie, pezzi di artiglieria, immondizia, e resti umani. Ma gli abitanti della gavannaja ulitsa non sembrano farci caso, non più, perlomeno.
“Vieni qui, riprendimi, voglio finalmente parlare al mondo”, ci incalza subito Vadim, elettrizzato e stupito dal vedere dal vivo un’italiana. “Voi siete italiani. Pensate se un giorno viene qualcuno e vi dice: ‘Basta, da ora devi pensare in ucraino’. Ma io sono nato qui! Io parlo russo, questa è la mia lingua madre! Non capitemi male, amo l’Ucraina, amo il mondo. Abbiamo vissuto sempre tutti insieme, forse non ci capivamo, ma vivevamo tutti insieme in questa città… chi dall’Azerbaigian, chi dalla Turchia. Vivevamo insieme senza problemi, ma queste persone sono arrivate odiando la lingua che parlo, odiandoci in quanto russi”. Il problema della lingua, onnipresente nelle testimonianze dal Donbass, anche a Mariupol’ diventa argomento di scontro tra i residenti e i nuovi cittadini ucraini, giunti dopo gli accordi del 2015. “Ci hanno obbligato a parlare ucraino. Attenzione, siamo andati tutti a scuola e noi l’ucraino lo parliamo e lo scriviamo. Ma noi parliamo il surzhik (dialetto misto tra ucraino e russo), ma loro ci imponevano il galiziano”.

(Foto: NG / Rossella Maraffino).

“I separatisti siete voi!”.
Alla domanda su chi sono i miliziani dell’Azov, i toni si accendono. “Capite cosa significa violenza, odio, abuso nel vostro cuore? No, forse non potete capirlo. Ci hanno chiamato separatisti, quando loro solo per i soldi oggi fanno i nazionalisti. Prima eravamo tutti sotto l’Unione Sovietica, eravamo cittadini della Federazione, e oggi invece vogliono l’occidente. Chi è allora il separatista?”. Vadim ci racconta che all’arrivo dei russi metà della città faceva parte del battaglione, e che questo processo è stato l’esito di un lavoro durato 8 anni. Giovani, ma anche persone di una certa età: “che nessuno vi dica che sono stati costretti. Sono venuti qui, si sono sposati, hanno prestato giuramento: sì certo, li hanno costretti… hanno costretto dei giovani a uccidere”.
I racconti della convivenza hanno tutti un chiaro leitmotiv: la derisione, la prevaricazione e l’oppressione di qualsiasi elemento distintivo russo, tra cui la religione. “Io tornavo dal mio lavoro a turni e loro mi sfottevano, mentre erano qui accampati a ubriacarsi: ‘Ma come, sei così credente e vai a lavorare nei giorni festivi?’. Nel mondo ci sono tanti posti in cui si professano diverse confessioni, ma questo funziona perché Dio è uno solo: i valori, il rispetto per gli esseri viventi è importante, io porto rispetto anche al cane, invece loro ci trattavano come bastardi. Queste persone hanno dimenticato cosa significa comportarsi da esseri umani”. Alla luce di una situazione così drammatica, pericolosa sia fisicamente che psicologicamente, viene spontaneo chiedersi perché queste persone non hanno lasciato Mariupol’. “Il mio appartamento è stato risparmiato, ma a prescindere io ho detto che non me ne sarei andato da nessuna parte. I miei figli vivono all’estero, ma mio padre ha combattuto per questa terra. Perché sarei dovuto scappare lì a nascondermi, con quale coraggio? Io non sono contro gli ucraini, io sono contro gli arroganti, i violenti, contro quelli che per otto anni se sentivano parlare russo ti picchiavano prendendoti alle spalle”. Affermazioni piene di dolore, che non lasciano spazio agli sproloqui terminologici dei media d’occidente.

(Foto: NG / Rossella Maraffino).
(Foto: NG / Rossella Maraffino).