Usa. Il vento indipendentista del Texas

di C. Alessandro Mauceri

Texas indipendentistiNei giorni scorsi, negli Usa si sono intensificate le proteste e le richieste da parte degli indipendentisti del “Texas Nationalist Movement” (Tnm). Sebbene molti media occidentali non abbiano dedicato molto spazio a questi eventi (di solito ci si limita a qualche regione del Bel Paese, alla Spagna, all’Ucraina o alla Scozia) il secessionismo e l’indipendentismo in America sono fenomeni diffusi. Fenomeni che, in un momento di grave crisi economica, stanno diventando un problema difficile da gestire: Georgia, Louisiana, Arkansas e Oregon sono solo alcuni degli Stati Uniti che da alcuni anni hanno cominciato ad avanzare richieste più o meno ufficiali miranti ad avere maggiore autonomia rispetto al governo centrale. Diversa la situazione del Texas. Anzi, della Repubblica del Texas, la quale ha affermato di essere già indipendente dal momento che, secondo alcuni, non ha mai aderito ufficialmente agli Stati Uniti.
Il Texas è diventato indipendente nel 1836, solo pochi anni prima di unirsi agli Usa (nel 1845). Un’unione da sempre ritenuta da alcuni illegittima.
Il movimento indipendentista texano è finito per la prima volta sui giornali americani nel 1997, quando, dopo il rapimento di una coppia, la polizia è intervenuta, uccidendo alcuni “militanti” e arrestando l’allora presidente della autoproclamata Repubblica del Texas, Richard McLaren.
Poche settimane fa un altro rapporto, questa volta dell’Fbi, ha rivelato, come ha riportato sul New York Times, l’intenzione di diversi gruppi indipendentisti di tornare attivi. Ma di farlo in modo pacifico, sfruttando il malcontento generale dei texani, tartassati da una pressione fiscale ritenuta ingiustamente elevata e dal finanziamento di operazioni militari in paesi lontani. La situazione attuale appare infatti molto diversa rispetto a quella di un ventennio fa: ora l’indipendentismo attira molti simpatizzanti e sono parecchi quelli che condividono i programmi politici del Tnm.
Un cambiamento che ha nasce prima di tutto da un elevato disagio sociale e da un carico fiscale troppo oneroso: oggi i texani si sentono costretti a sobbarcarsi il peso di essere statunitensi quando, invece, potrebbero vivere come sceicchi. Non in senso metaforico, ma in senso reale: il Texas possiede circa un quarto delle riserve di idrocarburi degli Usa (il suo petrolio, West Texas Intermediate, è considerato uno dei migliori d’America ed quotato al Nymex di New York fra 79 e 110 dollari al barile). Il Texas è anche il primo produttore di gas naturale del paese. Anche il settore delle fonti energetiche rinnovabili è florido: nel 2006 il Texas è diventato il maggiore produttore di energia eolica, ponendosi davanti alla California. Per non parlare del potenziale di energia solare e idroelettrica che fanno di questo stato uno dei maggiori centri energetici del pianeta.
Non sono da meno anche altre risorse primarie come il gesso, il magnesio e lo zolfo e vi sono depositi di lignite e di catrame. Altri settori fanno del Texas uno stato decisamente prospero: dalla produzione di merci pesanti e materiali da costruzione, alla ricerca medica, dalle industrie ad alta tecnologia, biotecnologie e ingegneria aerospaziale, al turismo, ai mass-media e al terziario. Senza dimenticare che l’economia texana fino ad oggi ha potuto godere anche di un forte sostegno finanziario da parte delle banche. Il Texas è un importante punto di riferimento mondiale anche nel campo della difesa, tanto da far concorrenza a nazioni come Gran Bretagna, Francia e Germania.
Oggi il Texas è la seconda economia degli Stati Uniti. Ma se venisse riconosciuto come stato indipendente secondo molti esperti sarebbe al 14mo posto a livello mondiale, ma, per contro, calerebbe sensibilmente la performance degli Usa. Un risultato non da poco. È su queste basi che ruota il perno della campagna degli indipendentisti: secondo molti di loro, il Texas è capace di essere autosufficiente dal punto di vista economico: “Abbiamo tutto quello che serve non solo per sopravvivere, ma per prosperare. Sappiamo che lo stesso spirito che ci ha portato allo sviluppo ci porterà a traguardi ancora maggiori come nazione indipendente”. Secondo Dave Mundy, portavoce del movimento nazionalista, sono questi i motivi che dimostrano una profonda diversità di interessi tra Washington ed Austin, la capitale dello stato federale.
Ed è per questo motivo che questo stato è da sempre un territorio ambito dai maggiori partiti americani: sia dal Partito Democratico (fino agli anni Ottanta il Texas era uno dei suoi capisaldi) che dal Partito Repubblicano (che lo aveva sostituito negli ultimi decenni). Ora entrambi stanno perdendo consensi.
Una situazione ben percepita anche da alcuni politici della vecchia scuola, come lo stesso governatore repubblicano Rick Perry, che già nel 2009 si era espresso a favore della soluzione indipendentista.
A questi aspetti si aggiunge il malcontento di molti texani dovuto all’utilizzo dei fondi pubblici per misure finalizzate al salvataggio delle banche, alla riduzione dell’accesso al credito dei cittadini, e a ripercussioni sull’economia del paese che ricordano più l’Italia o la Grecia che il mondo fantastico in cui vengono spesso presentati gli Usa, dove i prezzi delle case sono ai minimi storici, la riduzione dei fondi pensionistici e la mancanza di nuovi posti di lavoro sono problemi ormai difficili da risolvere.
Sono questi i motivi alla base dell’espansione a macchia d’olio del “Texas Nationalist Movement”, una delle correnti che formavano il gruppo della Repubblica del Texas: stando ad un sondaggio della Reuters dello scorso anno, il 34 per cento dei texani sarebbe favorevole alla secessione.
Al punto che nel 2012, dopo una regolare raccolta di firme, ha ufficializzato la propria richiesta di indipendenza dalla Casa Bianca, insieme ai separatisti della Louisiana.