Libia. Il caos delle milizie e il (secondario) ruolo dell’Italia

di Giuseppe Gagliano

La Libia è di nuovo nel caos, un caos che Italia ed Europa hanno scelto di ignorare, preferendo accordi di facciata a una vera strategia politica. A Tripoli gli scontri sono esplosi nella tarda serata di lunedì, dopo l’uccisione di Abdel Ghani al-Kikli, detto Gheniwa, capo dell’Apparato di Supporto alla Stabilizzazione (Ssa), una milizia potente trasformatasi in un’organizzazione mafiosa che controllava il distretto di Abu Salim. La sua morte ha scatenato una guerra tra fazioni, con la Brigata 444, vicina al premier al-Dbeibah, che si è mossa per consolidare il potere. Non si sparava così nella capitale da anni, e il governo di Giorgia Meloni ha persino valutato l’evacuazione degli italiani, segno di quanto la situazione sia fuori controllo.
Questo disastro non è un fulmine a ciel sereno, ma il risultato di scelte miopi. Italia ed Europa hanno puntato tutto sulla repressione dei flussi migratori, affidandosi a criminali per contenere il problema e presentarlo come un successo all’opinione pubblica. Hanno creato un “sistema libico” fatto di una conseguente corruzione: soldi in cambio trattenere, anche con arresti e violenza, i migranti. Personaggi come al-Masry, riconosciuto torturatore di Mitiga, ricercato dall’Aja ma lasciato libero in Italia con un cavillo, o lo stesso al-Kikli, frequentatore indisturbato del Belpaese, sono stati alleati di Roma. Le loro milizie gestiscono carceri dove i migranti subiscono abusi e torture, come documentato dall’Onu. La Libia non è uno Stato in ricostruzione, ma un coacervo di malavita con cui ci si è alleati trascurando le risorse energetiche, vitali per l’Eni, e ogni prospettiva politica seria.
Mentre ci si affida a queste fazioni, la Turchia e la Russia giocano una partita diversa. Erdogan e Putin, pur distanti, si parlano e muovono le pedine: la Turchia controlla militarmente l’ovest, la Russia sostiene Haftar a est, in Cirenaica. Haftar, ex uomo di Gheddafi e cittadino americano dopo vent’anni di esilio, ma anche ex uomo della Cia, è stato ricevuto a Mosca per la parata della vittoria del 9 maggio, e ora la Russia vede la Libia come nuovo avamposto africano e mediterraneo dopo il ritiro parziale dalla Siria. Ma la vera novità è l’apertura tra Haftar e la Turchia: a aprile suo figlio Saddam è stato ad Ankara, ottenendo droni, addestramento per 1.500 uomini e esercitazioni navali congiunte. La Turchia, che pure nel 2020 aveva fermato Haftar alle porte di Tripoli, ora si propone come mediatore per unificare le forze libiche, mentre mantiene basi in Tripolitania.
Italia ed Europa invece restano in balìa degli eventi, senza influenza reale. Le informazioni arrivano filtrate da Erdogan, e da Mosca non si ottiene nulla. La nostra politica si limita a finanziare milizie per fermare i migranti, senza affrontare le cause del caos. Al-Dbeibah, che firma gli accordi con gli europei, si regge su alleanze fragili: chi supera le “linee rosse” viene eliminato, come Bija, trafficante ucciso l’estate scorsa, o al-Kikli ora. Anche il ministro dell’Interno Adel Juma, scampato a un attentato a febbraio, era stato visitato a Roma da al-Kikli durante la sua convalescenza. In questo gioco di potere, chi comanda ha la pistola in tasca, e l’Italia è nel mezzo, senza una visione, mentre Russia e Turchia ridisegnano gli equilibri. La Libia, un tempo ricca di petrolio, è oggi una Gomorra che ci si è illusi di gestire.