Cambogia. Oltre a Pechino, si guarda a Ovest

di Francesco Giappichini

Il ministro degli Affari esteri della Cina, Wang Yi, la «volpe d’argento», ha incontrato Sun Chanthol: si tratta del più importante leader della Cambogia, se si escludono il mitizzato premier Hun Sen e suo figlio – oltreché primo ministro designato – Hun Manet. Chanthol, l’attuale ministro dei Lavori pubblici e trasporti, dal 22 agosto sarà vice premier del Paese, dopo la formazione dell’esecutivo Manet. L’incontro, a Phnom Penh, era molto atteso: Wang è anche «director of the Office of the central foreign affairs commission», e non solo esegue, ma definisce la linea di politica estera del Dragone. E poi adesso ogni mossa di Wang è soppesata in modo maniacale: il 25 luglio, il diplomatico ha sostituito alla guida del ministero Qin Gang, misteriosamente destituito, (per la stampa occidentale si sarebbe trattato di un affaire sentimentale).
Durante la visita, e col pretesto dell’Anno dell’amicizia Cina-Cambogia, le parti hanno deciso di rafforzare i rapporti strategici ed economici, in vista del nuovo corso politico, che s’inaugurerà sulle rive del Mekong. Tuttavia molti analisti rilevano quanto la classe dirigente cambogiana sia adesso alla ricerca di nuove partnership: le quali, almeno indirettamente, sappiano ridurre la dipendenza da Pechino. Beninteso, Hun Sen e il suo entourage non sono pentiti di aver condotto il Paese nell’orbita cinese. E non solo per il business della Nuova via della seta. Gli scambi con Pechino rappresentano un quarto del commercio estero, e proviene dal gigante asiatico oltre il 60% degli investimenti esteri diretti nel Regno.
Solo il rapporto privilegiato col Grande Regno di mezzo ha permesso una crescita del 5,1% nel’22, prima dello stimato 5,5 nel ’23; e solo la determinazione del presidente Xi Jinping ha legittimato i vertici locali, evitando alla Cambogia di essere relegata tra gli «Stati canaglia» per il suo autoritarismo. Inoltre i cambogiani non storcono il naso, dinanzi ai controversi Build–operate–transfer (Bot). Anzi, a Phnom Penh si è entusiasti che l’autostrada Phnom Penh – Bavet sia finanziata dai Bot cinesi, con un miliardo e 400mila dollari: il gruppo pubblico China road and bridge corporation (Crbc) costruirà l’infrastruttura, e in cambio ne otterrà la gestione per cinquant’anni, prima di restituirla ai locali.
«Tutto questo è a beneficio del governo cambogiano. La popolazione beneficia di queste costruzioni cinesi senza che il governo debba aumentare troppo il suo debito, stimato in dieci miliardi di dollari», osserva Chhay Lim, visiting fellow presso il Center for southeast asian studies. Lo stesso fa però notare che non si tratta di «una relazione ideologica», ma tutto è «essenzialmente basato sull’interesse economico». Insomma la classe dirigente cambogiana vorrebbe quantomeno limitare l’invadenza cinese: sia per il timore di bolle immobiliari, sia perché le ricette di Pechino non paiono in grado di ridurre le diseguaglianze. Tanto che nelle fabbriche tessili, che generano un terzo della ricchezza nazionale, lo stipendio mensile è pressoché bloccato sui 260 dollari. Così riemerge la volontà di recuperare il rapporto con gli Stati Uniti, di trovare nuovi partner in Asia e in Europa: in Corea del Sud, Emirati arabi uniti, Giappone, o in Francia. E la condanna da parte di Phnom Penh dell’invasione russa, va in questa direzione. Tuttavia, prosegue Lim, i Paesi «occidentali sono particolarmente duri con il suo regime, mentre coltivano relazioni con Stati asiatici molto più autoritari, come il Vietnam».