Asean. Vietnam e Cambogia guidano la ripresa economica

di Francesco Giappichini

Il 2023, per i Paesi dell’Asean (Association of south-east asian nations), sarà all’insegna della resilienza. Sì, il termine è oggetto di una crescente antipatia, ma è quello utilizzato (résilience) dal Service économique régional de Singapour (Ser) – ente del Ministero dell’Economia, delle finanze e della sovranità industriale e digitale francese – per descrivere l’andamento economico post-pandemico del Sud-est asiatico. Del resto un recente report dell’United overseas bank (Uob) di Singapore è chiaro: la volatilità finanziaria che ha segnato il ’22 continuerà anche nel ’23, ma i solidi fondamentali della regione aiuteranno le economie dei singoli Stati a superare gli alti costi energetici, l’inflazione, la guerra in Ucraina, le tensioni Cina – Usa, le interruzioni delle catene di approvvigionamento (supply chain), il generalizzato innalzamento dei tassi d’interesse, e gli effetti persistenti del Covid (con le massicce misure di sostegno che hanno indebolito i bilanci). Andiamo però con ordine, cominciando dalle stime sulla crescita del prodotto interno lordo (PIL) nel ’23, che la Banque asiatique de développement (Basd) ha pubblicato riguardo ai membri dell’Asean.
E’ degno di nota che a far segnare il maggior incremento siano le economie dei Paesi bagnati dal Mekong: la Cambogia e il Vietnam, due Paesi, lato sensu, autocratici. A Phnom Penh governa l’«esecutivo personale» di Hun Sen, al potere dal 1998, mentre quella vietnamita è una repubblica socialista. Come accennato, la Basd prevede per Hanoi un soddisfacente +6,3% del PIL, che fa il paio col +6,2 cambogiano. Da segnalare anche il +6 filippino, mentre in coda vi è la sviluppata economia di Singapore (2,3). La crescita di Cambogia e Vietnam non è per nulla frenata dall’inflazione: per Phnom Penh si prevede un rassicurante 2,5 nel ’23, mentre il dato di Hanoi, in dicembre, si è stabilizzato su quota 4,5, (i flussi turistici dalla Cina potrebbero tuttavia provocare un lieve rialzo dei prezzi). E neppure l’aumento del salario medio vietnamita (+ 16% nel ’22 sul ’21) ha inciso sensibilmente sull’inflazione: oggi un lavoratore guadagna in media 286 dollari al mese. Il fenomeno inflattivo appare quindi molto più contenuto rispetto sia alla deriva del Laos (39,3), sia al balzo dei prezzi registrato nelle Filippine (+8,1). A fotografare nel suo insieme la situazione economica dell’Asean – la cui presidenza a rotazione è adesso indonesiana – è soprattutto l’indice Pmi (Purchasing managers index): l’indicatore che traccia il quadro dell’attività manifatturiera di un’area.
E il dato mostra come una domanda globale più debole si traduca in una contrazione dei nuovi ordini, e in una decrescente fiducia degli imprenditori, (del resto il PIL cinese nel ’22 è cresciuto solo del 2,7%, mentre per il ’23 si pronostica un poco appassionante +4,3). E mentre il barometro sullo stato di salute economico segna un incoraggiante 53,1 per le Filippine, il Vietnam ha fatto registrare, in dicembre, un dato più modesto (46,4). C’è però chi sta peggio, si pensi al 42,1 della Birmania. Un velato pessimismo che si estende ai flussi finanziari: nonostante la buona tenuta di Vietnam e Thailandia, gli investitori puntano ora su Taiwan e Cina, (in ragione della riapertura post-pandemica). Tornando all’economia vietnamita, le speranze degli analisti si basano soprattutto sulla ripresa del turismo cinese (col conseguente rafforzamento del dong), che prima del Covid-19 rappresentava un terzo degli arrivi internazionali.