Bosnia-Erzegovina. Srebrenica: l’Irmct conferma l’ergastolo per Ratko Mladic

Un monito anche per i responsabili degli attuali scenari dei crimini di guerra e contro l’umanità. Dal presidente Biden l’idea di ridare forza ed effettività alla giustizia penale internazionale. Il rilancio della Corte Penale Internazionale.

di Maurizio Delli Santi *

Il “Meccanismo residuale per i Tribunali Penali Internazionali” (IRMCT), presieduto dalla giudice Prisca Matimba Nyambe, ha confermato la condanna all’ergastolo per Ratko Mladic, il generale serbo, ormai 79 enne, ritenuto responsabile di genocidio e crimini contro l’umanità per la strage di Srebenica. Si tratta dell’esito del giudizio di appello alla sentenza emessa dal Tribunale per la ex Jugoslavia, che, istituito nel 1995, ha cessato le sue attività nel 2017 dopo 83 condanne e 19 assoluzioni.
Nella sentenza di primo grado del 22 novembre 2017, il Tribunale, dopo aver ascoltato oltre 500 testimoni ed esaminato oltre 10mila elementi di prova, condannò Mladic all’ergastolo per il contributo e la partecipazione a 4 Joint Criminal Enterprises volte alla persecuzione, sterminio, omicidio, deportazione, trasferimento forzato e inumano di popolazioni, attacco alla popolazione civile e presa in ostaggio di personale Onu. Tra i fatti più drammatici il processo accertò le gravi responsabilità sul massacro di Srebrenica, qualificato come genocidio. Su 11 capi d’accusa, Mladic fu assolto per una delle due accuse di genocidio riferita al complesso delle azioni criminali avvenute in Bosnia fra il 1991 e il 1995. La sentenza d’appello dell’8 giugno ha confermato in via definitiva la condanna all’ergastolo per tutti gli 11 capi d’accusa che riguardano il genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra, sia per fatti specifici quali l’assedio di Sarajevo e il genocidio di Srebrenica, sia per le finalità generali delle attività criminali e l’uso sistematico del genocidio per le quali c’è stato un inasprimento del giudizio. Sono stati esclusi solo alcuni fatti ritenuti episodici, anche se particolarmente violenti compiuti nelle prime fasi del conflitto.
La vicenda di Srebrenica non è ancora sufficientemente ricordata e purtroppo è solo genericamente evocata mentre si tratta del peggior massacro che l’Europa ha vissuto tra l’11 e il 19 luglio del 1995 a distanza di cinquant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale. Ma soprattutto è indicativa della pericolosità della matrice ideologica del genocidio che il processo del Tribunale dell’Aja ha scientificamente provato. Il contesto è noto: nella guerra di natura etnica e religiosa in Bosnia, che ha provocato 100 mila morti e 2 milioni di profughi, si contrapposero da un lato i musulmani bosniaci e i cattolici croati, che rivendicavano l’indipendenza dalla Jugoslavia, dall’altro i nazionalisti serbi, che separatisi dalla Bosnia-Erzegovina miravano a trasferire forzatamente tutte le altre comunità dai territori che avevano appena conquistato. Due anni prima del massacro, Srebrenica era stata designata dalle Nazioni Unite come “area sicura” per i civili in fuga dai combattimenti tra il governo bosniaco e le forze separatiste serbe, e pertanto nel 1995 ospitava ventimila profughi e 37mila residenti. A loro protezione erano stati posti circa cinquecento “caschi blu”, scarsamente armati. Le forze serbe di fatto non trovarono opposizione da parte del contingente delle Nazioni Unite, una vicenda che ancora pone in discussione le scelte sugli assetti e sulle responsabilità dei dispiegamenti delle “forze di pace”, e attuarono il “massacro di Srebrenica”: le truppe serbe radunarono uomini e ragazzi di età compresa tra sedici e sessant’anni, per poi fucilarli e seppellirli in fosse comuni; trasferirono quindi nelle aree controllate dai musulmani circa ventimila donne e bambini, e molte donne e ragazze dovettero subire lo stupro. La scellerata violenza degli aggressori portò al massacro di circa 8 mila morti.
A margine della sentenza assume un particolare rilievo il commento del presidente Usa Joe Biden: “Questa storica sentenza mostra che coloro che commettono crimini orribili saranno considerati responsabili e rafforza la nostra comune risolutezza nel prevenire che future atrocità accadano in qualsiasi parte del mondo”. Se si guarda al tema oggi ancora controverso della effettività di una giustizia penale internazionale, queste indicazioni vanno lette cogliendone un particolare significato.
Si tratta ancora una volta di un segnale di apertura ai modelli di giustizia penale internazionale che il Dipartimento di Stato statunitense ha solennemente enunciato quando il 2 aprile scorso è stato revocato l’executive order della presidenza Trump contro i giudici della Corte penale internazionale dell’Aja, che avevano annunciato l’avvio di inchieste per ipotesi di crimini di guerra commessi, anche da parte di soldati americani, in Afghanistan a partire dal 2003 (v. “Nuovi scenari per la giustizia penale internazionale” in Giurisprudenza penale on line del 18 aprile 2021). Va ricordato in proposito che gli Stati Uniti sono tra i principali Stati, insieme a Russia, Cina e Israele, che non aderiscono al sistema della Corte Penale Internazionale, che comunque vede il riconoscimento dei 123 Stati parte che hanno sottoscritto lo Statuto di Roma del 1998, entrato in vigore nel 2002.
Nella nota del 2 aprile il segretario di Stato Antony Bliken afferma che il “sostegno allo stato di diritto, l’accesso alla giustizia e l’accertamento sulle responsabilità per le atrocità di massa” rappresentano “importanti interessi per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, che vanno protetti e portati avanti impegnandosi con il resto del mondo per affrontare le sfide di oggi e di domani”. La nota prosegue ricordando che dai tempi dei Tribunali di Norimberga e Tokyo, la leadership degli Stati Uniti ha permesso che la giustizia dei tribunali internazionali condannasse gli imputati dei più gravi crimini commessi dai Balcani alla Cambogia, al Ruanda e altrove, assicurando che quell’eredità sostenesse anche l’azione di una serie di tribunali internazionali, regionali e nazionali e di meccanismi investigativi internazionali per Iraq, Siria e Birmania “per realizzare la promessa di giustizia per le vittime di atrocità”. Conclude infine la nota: “Continueremo a farlo attraverso rapporti di collaborazione, incoraggiati dal fatto che gli Stati parte dello Statuto di Roma stanno prendendo in considerazione un’ampia gamma di riforme per aiutare la Corte a dare priorità alle proprie competenze e a realizzare la sua missione principale di servire come tribunale di ultima istanza per punire e scoraggiare i crimini atroci. Riteniamo che questa riforma sia uno sforzo proficuo”.
In sostanza, appare evidente la volontà americana di riavvicinarsi alla giurisdizione universale della Corte penale internazionale, e probabilmente gli Stati Uniti non attendono altro che una iniziativa diplomatica degli Stati parte che sostengono la Corte dell’Aja, evidentemente con alcune rassicurazioni più esplicite sul “principio di complementarietà”. Tra gli argomenti che potrebbero portare gli Stati Uniti a riconsiderare l’adesione allo Statuto di Roma va infatti ricordata la natura “complementare” della giurisdizione della Corte, che ne prevede l’intervento solo quando gli Stati che hanno competenza sul caso “non abbiano la volontà o la capacità di perseguire il crimine mediante i propri tribunali” (gli artt. 17-20 dello Statuto della ICC richiamano i concetti di unwillingness, inability e il divieto del ne bis in idem). In sostanza, rispetto ad una denuncia presentata davanti alla ICC nei confronti dei propri militari, per uno Stato parte sarebbe sufficiente dimostrare di avere attivato comunque una propria inchiesta penale interna per bloccare il processo internazionale. Si tratterà di verificare quanto la giurisdizione nazionale possa rivelarsi imparziale, ma questo è un altro problema, che potrebbe portare comunque al riesame davanti alla ICC ai sensi dell’art. 20 dello Statuto, e in ogni caso va ricordato che le posizioni assunte dalle Corti statunitensi sono note per essere state spesso imparziali, anche quando si è trattato di accertare responsabilità su vicende come quelle dei prigionieri di Guantanamo.
Rimane fondamentale comunque questa enunciazione di principio della nuova amministrazione americana che ha riconosciuto come “importanti interessi per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti” l’affermazione dello stato di diritto, l’accesso alla giustizia e l’accertamento delle responsabilità sulle più gravi atrocità che ancora colpiscono grandi masse di popolazioni. Alla già numerosa comunità degli Stati che sostengono la giurisdizione della Corte non spetta che cogliere a volo questa apertura, e forse l’Italia, la Nazione che a suo tempo ha voluto fortemente lo “Statuto di Roma” istitutivo della Corte Penale Internazionale, promuovendone la sottoscrizione, con una storica cerimonia dell’“apertura della firma” avvenuta proprio a Roma, in Campidoglio il 18 luglio 1998, potrebbe dire e, soprattutto, fare qualcosa di più assumendo una specifica iniziativa diplomatica.
In questi scenari, dove purtroppo il diritto internazionale arretra di fronte a nuovi ingiustificati conflitti armati in cui periscono vittime civili, alle minacce geopolitiche, agli atti dispostici di irresponsabili Capi di Stato e di governo, alle persecuzioni religiose o etniche, è necessario riaffermare l’importanza della giurisdizione della Corte Penale Internazionale soprattutto ricordando il carattere della “imprescrittibilità” dei reati che persegue. L’idea della giurisdizione penale universale è frutto di una cultura giuridica di cui l’Italia da sempre si è fatta promotrice, ed oggi ha ancora un senso proprio per noi italiani, che non otteniamo ancora giustizia sulla morte di Giulio Regeni e sulla esecuzione dell’ambasciatore Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci, come accade per tanti altri crimini ad opera di nuovi “signori della guerra” ancora attivi in molte sofferte parti del mondo.

* Membro dell’International Law Association, dell’Associazione Italiana Giuristi Europei e dell’Associazione Italiana di Sociologia.