Cina. C’era una volta il Comunismo…

di C. Alessandro Mauceri –

mao partito comunista cineseQualche anno fa, dopo il fallimento dell’URSS come Paese “comunista”, il vessillo di baluardi del comunismo del ventunesimo secolo era rimasto solo nelle mani di nazioni come Cuba o la Cina. Poi, venuta meno la pressione su Cuba della Russia (troppo indaffarata a risolvere problemi interni) e la figura carismatica di Castro, a fregiarsi di Paese “comunista” rimase solo la Cina.
E con questo aggettivo oggi continuano a presentarsi quanti risiedono ai vertici del partito e quanti governano il Paese sotto un ritratto di Mao Tse Tung.
Un tempo, in Cina, era diffusa la convinzione che fosse possibile vivere completamente al di fuori di ciò che avveniva oltre le sue frontiere. Che sarebbe stato sufficiente alzare delle barriere non solo fisiche, ma prima di tutto ideologiche, per poter garantire, se non la prosperità, almeno la sopravvivenza del popolo e della cultura cinese. Una cultura millenaria che non ha niente da invidiare a quella occidentale, anzi. L’economia era legata principalmente al settore primario e i beni prodotti erano destinati soprattutto al mercato interno.
Negli ultimi decenni, però, la Cina ha aperto le frontiere a molte, anzi a moltissime aziende occidentali che, pur di sfruttare la manodopera a basso costo, l’assenza di qualsiasi controllo sull’applicazione di norme relative alla sicurezza degli impianti produttivi e l’assenza di vincoli sindacali, sono state disposte a regalare buona parte del proprio know how, frutto di secoli di sviluppo tecnologico. Così, nel giro di pochi anni, sono nate in Cina migliaia di aziende che a volte, non potendo competere con marchi già presenti sui mercati internazionali, hanno concentrato la propria attenzione sui semilavorati. Il risultato, oggi, è che, in tutti i Paesi del mondo, è impossibile trovare prodotti che non abbiano al proprio interno almeno un componente made in China.
La conseguenza di questa apertura delle frontiere è stata la nascita della miriade di medie e grandi imprese cinesi che hanno accelerato lo sviluppo del capitalismo. E, di pari passo, la fine del comunismo, almeno del “comunismo” come lo intendeva Mao.
Oggi la Cina è la prima potenza economica mondiale e ha imposto la propria presenza anche intorno ai tavoli “istituzionali”, da cui prima era esclusa, come, ad esempio, il G8. Ma questa performance ha avuto un costo non secondario sulla gestione della “cosa comune”. Secondo Hurun 2013, sarebbero ben 1453 i cinesi tra gli uomini più ricchi del mondo e sono ormai quasi una novantina i nuovi ricchi che fanno parte dell’Assemblea nazionale del popolo, una sorta di parlamento cinese. Una cosa che dovrebbe apparire quanto meno strana in un Paese che si autoproclama “comunista”. E che corre il rischio di essere governato da un nugolo di “industriali politici” che detengono un patrimonio stimato in decine e decine di miliardi di dollari. Gli stessi che ovviamente, sono assolutamente contrari a che il Paese sia gestito secondo i principi cui si ispirava Mao.
In una recente intervista sulla scalinata del Grande Palazzo del Popolo, Zong, uno degli uomini più ricchi presenti nel Parlamento cinese si è detto fermamente contrario all’imposizione di patrimoniali o tasse sulle case. Anche a costo di andare contro le direttive del partito e di Xi Jiping che, invece, vorrebbe porre un freno alla crescita del divario dei redditi.
La verità è che, da almeno un decennio, la Cina si trova ad un bivio: da una parte ci sono i leader del partito comunista cinese che temono di perdere l’enorme potere accumulato negli anni e il controllo sul popolo; dall’altra, un ristretto numero di soggetti (rispetto al totale dei componenti il Parlamento) che teme che la crescita eccessivamente veloce dell’economia del Paese possa portare al collasso una società sempre più disuguale e divisa proprio da questa crescita.
In Cina è in corso una vera e propria guerra interna per il controllo del potere tra chi per decenni ha fatto credere alla popolazione che tutti hanno gli stessi diritti e doveri e, facendolo, ha potuto gestire enormi vantaggi e enormi poteri e chi, invece, vuole mettere da parte qualsiasi ideologia e, proprio come avviene nei Paesi occidentali, fare ciò che vuole per accrescere le proprie ricchezze nascondendosi dietro la maschera di paladini del bene comune.
Così, mentre da una parte ci si vanta del fatto che, da quando è stata introdotta l’economia di mercato, 300 milioni di cinesi sono usciti dalla povertà (anche se a ben guardare il reddito medio del Paese è sceso a livelli inferiori rispetto a quello di Paesi in crisi profonda come la Bielorussia), dall’altra il mercato dei beni di lusso continua ad aumentare. La Cina “comunista” è ormai il primo mercato globale per le auto di lusso (il secondo per la Ferrari…) e Pechino è il mercato in cui lo scorso anno sono stati venduti più yacht e imbarcazioni italiane di lusso….. Senza contare aerei privati da milioni di dollari e navi che, però, a causa delle restrizioni dell’aeronautica e della marina che limitano e molto l’attività privata nei cieli e nel mare, non decollano né salpano.
E sbaglia chi pensa che questa diatriba interessi poco il mondo occidentale. Il Parlamento cinese non è chiamato spesso a prendere decisioni dato che è stato, ed è tuttora, quasi un organo di “consiglio” del quale fanno parte tante figure controverse.
La realtà è che anche nell’ultimo baluardo del comunismo, i principi di uguaglianza e di parità (se mai sono esistiti) sono scomparsi e non da oggi, ma da molto tempo. I cinesi di una certa età ricordano bene le privazioni e lo stato di miseria prima del 1979, cioè prima che Deng Xiaoping aprisse la Cina all’economia di mercato. Fu allora che il Paese decise di aprire le proprie frontiere e di legarsi a doppio filo all’economia dei Paesi più industrializzati (che erano anche dei grandi acquirenti). Nessuno in Cina, allora, immaginava che, proprio per questo motivo, il Paese avrebbe finito per subire una profonda crisi. Una crisi prima di tutto economica, come creditrice nei confronti di Paesi come gli USA, ma anche dovuta al crollo della domanda globale. E, esattamente come negli altri Paesi industrializzati, a pagare le conseguenze delle scelte errate di chi era al potere (indipendentemente dal fatto che fosse un nuovo ricco o il capo di un partito che non esiste più) sono sempre gli stessi: i lavoratori e gli operai. Nel 2009, in pochi mesi, decine di migliaia di imprese fallirono e decine di milioni di lavoratori persero il lavoro. Ma il governo “comunista” cinese decise di varare un provvedimento che faceva marcia indietro sullo Statuto dei lavoratori approvato nemmeno un anno prima, e decise di agevolare le Industrie piuttosto che i lavoratori.
Shengmin Chanyuan (il nome, in cinese, significa Nuova oasi per la vita) era una piccola comune di 150 persone che aveva deciso di vivere facendo riferimento ai principi del comunismo “ideale”. Su un pezzo di terra nemmeno tanto grande si condivideva di tutto, dalla casa al cibo alle risorse. Ognuno metteva a disposizione degli altri le proprie capacità e il proprio lavoro; il ricavato della terra veniva poi ripartito fra tutti, sulla base dei bisogni individuali. Shengmin Chanyuan sorgeva in un luogo meraviglioso da un punto di vista naturalistico. E forse proprio questa è stata la causa della sua rovina: un imprenditore pensò che avrebbe potuto farne un sito turistico. Così prima cercò di comprare la terra col denaro. Ma il denaro non vale niente per chi riesce a vivere e bene del proprio lavoro. Così cercò di convincere le autorità locali ad espropriarla. Alla fine, non essendo riusciti in alcun modo, neanche con forme di coercizione e di intimidazione decisamente pesanti, si è deciso di chiudere l’unica strada che permetteva l’accesso al villaggio…..
Così chi oggi governa non si è limitato a distruggere un piccolo villaggio rurale: ha abbattuto anche quello che, forse, era anche l’ultimo baluardo dell’ideologia comunista in Cina. E, forse, nel mondo.