Cina. Tonfo dell’export, la crisi è conclamata

di Francesco Giappichini

La notizia è di poche ore fa: in luglio le esportazioni dalla Cina verso il resto del mondo sono crollate del 14,5% su base annua. Un pessimo dato, che non solo segue il -12,4% registrato in giugno, ma si accompagna a un deprimente calo delle importazioni, pari anch’esso al -12,4 per cento. L’import del gigante asiatico è del resto in declino per il nono mese consecutivo, e in giugno il calo è stato del 6,8 per cento. Tornando all’export, siamo innanzi al maggior calo dal febbraio ’20 (-17,2%), quando l’economia di Pechino era bloccata dalla pandemia. E anche in questo caso si tratta di un declino: a parte un piccolo rimbalzo in aprile, le vendite all’estero stanno diminuendo costantemente da ottobre ’22.
E se è vero che i mercati prevedevano una flessione del commercio estero cinese, nessun think tank al mondo aveva prefigurato un tonfo di tali proporzioni. Quasi come riflesso pavloviano, gli analisti hanno puntato il dito contro il calo della domanda: sia le ricorrenti minacce di recessione nell’occidente, sia un’inflazione che galoppa su scala globale, indebolirebbero la richiesta internazionale di beni cinesi. Tuttavia rileverebbero anche altre ragioni, legate al ruolo geostrategico della Cina: dalle tensioni geopolitiche con gli Stati Uniti, al desiderio di alcuni Paesi occidentali (Germania in primis, ma anche l’Italia) di ridurre la dipendenza da Pechino, o comunque di diversificare le catene di approvvigionamento.
Com’è noto, le esportazioni rappresentano storicamente un fattore chiave per la crescita cinese, di conseguenza il loro calo ha un impatto diretto sui consumi interni, e quindi sull’occupazione, specie giovanile. Questi dati, secondo gli osservatori, finiscono dunque per indebolire in modo decisivo la seconda economia mondiale: c’è chi parla di un futuro di stagnazione, e alcuni segnali di deflazione sembrerebbero già anticipare questa fase. Insomma il tanto atteso rimbalzo, quello successivo alla revoca delle draconiane misure legate alla pandemia, non c’è stato. E il prodotto interno lordo (PIL), complici il calo dei salari reali e la crisi del mercato immobiliare, è cresciuto solo dello 0,8%, tra il primo e il secondo trimestre ’23.
Così gli economisti più pessimisti prefigurano addirittura “a liquidity trap”, ovvero il fenomeno della «trappola della liquidità», peraltro già vissuto dai vicini giapponesi negli Anni novanta. In questo scenario, in cui ogni politica monetaria diviene inefficace, i consumatori riducono drasticamente i consumi: «In altre parole, c’è il rischio che le imprese e le famiglie cinesi, spinte dal loro sentimento molto negativo sulle prospettive economiche, preferiscano disinvestire e ridurre l’indebitamento, alla luce del calo della generazione di entrate», spiega Alicia Garcia-Herrero, economista della banca d’affari Natixis. Questa situazione, che mette a rischio la tenuta sociale del Dragone, potrebbe ostacolare in modo decisivo l’auspicata fase di espansione globale. Ciò che però soprattutto sgomenta gli osservatori, è la mancanza di misure idonee a invertire il ciclo. Da un lato la leadership che ruota attorno al presidente Xi Jinping non rinnega la propria strategia dirigista, basata sul controllo dell’economia, da parte del Partito comunista cinese. Dall’altro lato, le casse statali sono pressoché vuote, e il governo è costretto ad astenersi da un efficace intervento di sostegno all’economia, che farebbe schizzare il debito pubblico a cifre monstre (ben oltre il 100% del PIL).