F-35: perché l’Italia non deve smettere di investire nel settore della Difesa

di Edoardo Corò –

f35 2E’ di poche ore fa la notizia che il nuovo esecutivo Renzi, e in particolare il ministro della Difesa Roberta Pinotti, parrebbe intenzionato, o quanto meno stia prendendo in considerazione l’idea di ridurre il numero di ordini da parte delle Forze Armate dei preventivati (già rivisti dal ministro Di Paola da 131 a 90) 60 F-35A e 30 F-35B presso la joint venture di Lockheed Martin e altri partner internazionali tra cui l’italianissima partecipata di Finmeccanica Alenia-Aermacchi, già impegnata tra l’altro non solo in veste di mera produttrice sul fronte del progetto Eurofighter, altro caccia già in forza all’ Aeronautica militare.
L’acquisto degli F-35 da parte dell’Italia era già diventato argomento spinoso e oggetto di dibattito presso l’opinione pubblica a partire dalla fine del 2011, con l’insediamento del governo Monti che, trovatosi a dover far fronte agli effetti della crisi finanziaria e quindi di rimanere entro i limiti di bilancio e di deficit imposti dall’Ue, aveva ridotto in maniera consistente il numero di caccia ordinati, scatenando per lo più il malcontento di una grossissima fetta di popolazione che, vedendosi aumentata la pressione fiscale, premeva per una totale rinuncia dell’Italia al progetto F-35. Durante il governo Letta tuttavia il problema sembrava, almeno in parte, divenuto di secondaria importanza, forse anche a causa del cambio di inquilino presso il dicastero della Difesa.
Infatti il ministro Mauro non solo si era dimostrato avverso al suddetto taglio, ma anzi era riuscito ad ottenere un cospicuo finanziamento per l’ammodernamento della Marina militare (6 miliardi), in particolare per l’acquisto e la produzione delle nuovissime Fremm (Fregate Europee Multi-Missione), costruite nei cantieri italiani e francesi di Orizzonte Sistemi Navali (partecipata di Fincantieri e Finmeccanica) e di Armaris, per la Marina militare italiana (Classe Bergamini), la Marine nationale francese (Classe Aquitaine) e la Marina marocchina (Classe Mohammed VI). Ora l’argomento è nuovamente ritornato di straordinaria attualità, dopo gli annunci della Pinotti e le conferme di Renzi, che oltretutto sembrerebbe disposto anche a vendere una delle due portaerei (in realtà si tratta di un incrociatore porta elicotteri adatto anche ai velivoli a decollo verticale), la nave Garibaldi, pur di trovare coperture finanziarie per le sue promesse in materia di lavoro e riduzione del cuneo fiscale. Questa ai più può apparire una scelta del tutto condivisibile, in particolare a quella generazione cresciuta durante la Guerra Fredda che pensava che gli Stati Uniti, rimasti soli dopo la dissoluzione dell’Urss, potessero garantire la pace in tutto il mondo e che la Nato non avesse più alcun nemico rilevante sulla faccia della Terra. Tuttavia le Primavere arabe e la guerra civile in Siria, con le conseguenti tensioni tra blocco occidentale e Russia, avevano già dimostrato come lo Stivale si trovasse al centro di uno scenario geopolitico altamente instabile e pronto ad esplodere da un momento all’altro: fosse solo per la sua posizione geografica, l’Italia rischierebbe di ritrovarsi parte in causa, o come garante di stabilità, o addirittura come membro di uno schieramento impegnato in conflitto.
Come se non bastasse negli ultimi mesi la temperatura in Crimea è schizzata alle stelle, per le tensioni nate tra Usa ed Ue da un lato e Russia dall’altro sulla questione Ucraina, con il Cremlino sempre più palesemente artefice di una restaurazione imperiale nel Caucaso e nell’Est-Europa, non certo disposto a rinunciare alla Crimea e alla base navale di Sebastopoli e alle regioni industrializzate ucraine, russofone, non solo per motivi strategici, ma anche per aumentare il consenso e la coesione all’interno della multiculturale Federazione Russa: più volte si è prospettato l’inizio di un terzo conflitto mondiale, e comunque il ritorno sulla scena di grandi potenze come la Russia trasforma nuovamente il Mediterraneo in un possibile campo di battaglia.
Proprio in questo momento, quando si delinea l’assoluta impossibilità di prevedere sia a lungo che a breve termine le minacce possibili per la sicurezza nazionale italiana, il governo decide di affossare completamente il futuro delle infrastrutture e dei mezzi di difesa dell’Italia, che nel prossimo decennio, a causa del ritiro di Tornado e AMX e di moltissime navi della flotta potrà contare solamente su 22 grandi navi (secondo stime del Ministero della Difesa) e su 45 F-35 e 96 Eurofighter Typhoon.
Certamente non una forza considerevole, insufficiente per la difesa a 360 gradi del territorio nazionale – lo dice lo stesso generale dell’Aeronautica Pasquale Preziosa, che il 23 novembre 2013 in audizione alle Commissioni riunite di Difesa di Camera e Senato ha spiegato come con 75 cacciabombardieri F-35 – ora 30 se si avvereranno le previsioni del Governo Renzi – l’aviazione italiana si troverà di fronte ad un “buco operativo” di minimo 5 anni. Infatti per quanto secondo un indagine conoscitiva sui sistemi d’arma presentata a febbraio in Parlamento dai 21 deputati Pd membri della Commissione Difesa, per l’Italia a livello meramente economico sarebbe molto più conveniente investire sul progetto Eurofighter, in quanto, essendo a partecipazione italiana, farebbe rientrare le spese grazie alle entrate di Alenia-Aermacchi e di tutto l’indotto, a differenza del progetto F-35 che andrebbe ad arricchire per la maggior parte l’americana Lockheed, facendo addirittura produrre in perdita lo stabilimento Alenia di Cameri; tuttavia i sopracitati deputati sembrerebbero dimenticare come le due tipologie di velivoli siano sostanzialmente differenti e non interscambiabili, in quanto l’Eurofighter è un caccia multiruolo di quarta generazione, l’altro è avanzatissimo e ancora in fase di produzione – e per questo soggetto a problemi che saranno risolti col tempo – cacciabombardiere stealth, ovvero invisibile ai radar: due aerei quindi complementari, con mansioni radicalmente differenti.
Si potrebbe delineare quindi un futuro assolutamente nero per le Forze armate italiane, le quali nel prossimo futuro si troverebbero disperatamente a corto di mezzi, sia in funzione di mera difesa e di controllo del territorio nazionale, sia in vista di uno scongiurabile ma possibile impegno italiano in un conflitto mediterraneo, sia in ultimo nel ruolo che dovrebbe competere principalmente all’Italia di garante della stabilità nel Mare Nostrum, tra i paesi africani e medio-orientali, con un cospicuo impegno ad esempio nella collaborazione con le forze di sicurezza tunisine, algerine e soprattutto libiche nel tentativo di stabilizzare una situazione che risulta ancora incandescente. Proprio un eventuale ed auspicabile impegno in Libia al fianco del nuovo e debole governo potrebbe assicurare all’Italia una restaurazione dei buoni rapporti creatisi durante i governi Berlusconi, con un ritorno non indifferente a livello di investimenti Italiani, che dovrebbero essere indirizzati prima di tutto sul settore energetico, ora che l’approvvigionamento dalle fonti russe appare quanto mai fragile, mostrando tutte le sue debolezze. Tra l’altro a risentire maggiormente dei tagli sarebbero proprio l’aviazione e la marina, i due settori delle Ff.Aa che andrebbero maggiormente implementati, in un paese come l’Italia che, privo di potenziali nemici al confine, si troverebbe ad agire principalmente dal mare e per questo dovrebbe fare della sua forza di proiezione dal mare la punta di diamante: ulteriori investimenti dunque in una Marina moderna con capacità aeronavali, (vendere una portaerei come la Garibaldi senza prevederne la sostituzione va nella direzione esattamente opposta), in un’aviazione efficiente e a lungo raggio con capacità differenziate sia di offesa che di difesa, e in ultimo in forze di fanteria anfibia altamente addestrate, per andare a ridurre sul numero di effettivi (con un risparmio sul lungo periodo) migliorando però la specializzazione e la strumentazione tecnologica a loro disposizione. E ciò andrebbe fatto proprio in vista dell’ormai certo ritiro degli Stati Uniti dal teatro mediterraneo a favore del fronte del Pacifico, in funzione anti-cinese e della sempre maggiore volontà di autonomia dell’Europa dalla vecchia alleata americana, non più vista come superiore e supervisore delle politiche europee in fatto di Difesa ed Esteri come durante la Guerra Fredda, ma piuttosto come un compagno alla pari.