Gaza. La totale inutilità psicologica delle distruzioni

Ebrei e arabi non hanno altra scelta che convivere.

di Dario Rivolta * –

È almeno dalla seconda guerra mondiale che bombardamenti a tappeto sulle città, distruzioni di abitazioni e uccisioni di civili sono stati utilizzati come strumento bellico in aggiunta alle ostilità che si svolgevano sui campi di battaglia. I bombardamenti tedeschi su Londra e altre città britanniche nel 1940 e 1941 uccisero più di 40.000 persone. Anche gli alleati, appena poterono farlo, applicarono la stessa pratica arrivando a quasi radere al suolo circa 58 città tedesche la maggior parte delle quali non aveva alcuna valenza strategica. L’esempio più eclatante fu la distruzione di Dresda. Questa città non era un obiettivo militare ma piuttosto una città ospedaliera che ospitava 25 grandi strutture mediche. Non producendo materiale bellico non era difesa da antiaerea e fu colpita da due successive ondate di almeno 800 bombardieri anglo-americani che sganciarono più di 7mila tonnellate di bombe incendiarie causando oltre 30mila morti. La stessa tattica fu seguita dagli americani sul Vietnam del nord e, seppur per un più breve periodo di tempo, sulla Serbia. Lo scopo dichiarato è sempre stato quello di spingere le popolazioni bombardate fino all’esasperazione e ribellarsi contro i governanti che li avevano trascinati in quel conflitto. Si credeva che ciò avrebbe costretto il nemico ad arrendersi o comunque chiedere che, in un modo o nell’altro, la guerra finisse. In realtà, nonostante sulla carta tale procedimento sembrasse logico e consequenziale, si è dimostrato sempre incapace di intaccare la volontà di combattimento dei popoli bombardati. I tedeschi si arresero solo quando le truppe nemiche arrivarono fino a Berlino, i vietnamiti del nord non si arresero mai e conquistarono la vittoria sul campo, dei britannici e della loro volontà di continuare a combattere è superfluo parlare e basta ricordare come Churchill riuscì a tenere salde le redini del comando e convincere il suo popolo a sopportare tutto sino alla vittoria finale.
Davanti ai raid a tappeto di questi ultimi tre mesi su Gaza verrebbe spontaneo un parallelo che, a ben guardare, vi si adatta solo in parte. Anche in questo caso qualcuno si aspettava che la distruzione a tappeto in atto avrebbe spinto gli abitanti della Striscia a fuggire altrove ma anche a dissociarsi da quell’Hamas che aveva causato la reazione dell’esercito israeliano dopo la carneficina del 7 ottobre. La differenza con i bombardamenti avvenuti in altre circostanze e tempi sta nel fatto che, con o senza l’approvazione dei loro concittadini, i guerriglieri di Hamas hanno (da sempre e volutamente) occultato le loro basi di lancio di missili, i depositi di armi e tutto che è ciò a loro utile per gli attacchi contro Israele in mezzo alle abitazioni civili. Sapendo ciò che la loro possibile distruzione avrebbe causato nelle opinioni pubbliche internazionali hanno usato a questi scopi anche le scuole, gli ospedali e le moschee oltre alle comuni abitazioni. Inoltre, tutto il territorio cittadino è stato scavato con la creazione di almeno 350 chilometri di tunnel che consentivano ai miliziani di spostarsi tra una base e l’altra senza essere né visti né sentiti e usando i passaggi anche per i trasferimenti di materiali di ogni genere. Inoltre, non va taciuto che Hamas sta ancora e continuatamente lanciando missili contro le città israeliane. C’è quindi una logica che non è puramente terroristica (anche se il risultato è lo stesso) nel tipo di guerra che stanno conducendo le forze armate israeliane.
Ciò che, invece, accomuna i fatti odierni con i bombardamenti precedenti è la totale inutilità psicologica delle attuali distruzioni. Gli abitanti di Gaza sono dovuti sfollare lasciando dietro di sé migliaia di amici e parenti morti e il loro odio non si è indirizzato verso i propri governanti ma è cresciuto nei confronti degli israeliani che li bombardano. Al contrario di quanto (forse) auspicato da Tel Aviv, il consenso e l’approvazione verso i fatti del 7 ottobre è aumentato non solo tra i gaziani ma anche tra i palestinesi in Cisgiordania e nelle altre popolazioni arabe. Il fatto che la qatarina al- Jazeera faccia da cassa di risonanza delle posizioni di Hamas non fa che peggiorare le cose. A settembre un sondaggio condotto da una organizzazione locale indipendente aveva rilevato che solo il 27% degli intervistati riteneva che Hamas fosse “il migliore rappresentate del popolo palestinese”. La stessa inchiesta svolta il 14 novembre, quindi dopo l’inizio dell’offensiva israeliana, ha trovato che chi giudicava Hamas in modo positivo era salito al 76%, sia a Gaza sia in Cisgiordania. A ciò va aggiunto che abbastanza lontano da Gaza, e cioè nei Territori, i conflitti locali tra palestinesi e coloni israeliani sono enormemente aumentati portando a centinaia di morti, soprattutto da parte araba, e migliaia di incarcerati. Tra ottobre e novembre scorsi c’è stata una media di cinque attacchi al giorno da parte di coloni contro case, terreni ed auto di palestinesi, causando più di 250 morti, tra cui 63 bambini. Anche tutti i lavoratori arabi che entravano in Israele ufficialmente e per motivi di lavoro è stato ritirato il permesso di entrare in Israele creando così migliaia di nuovi disoccupati senza salario. Il governo di Tel Aviv ha anche deciso di non continuare a versare al Autorità Palestinese le tasse raccolte per suo conto creando così ulteriori difficoltà economiche per i governanti di Ramallah. Un sondaggio condotto all’inizio di dicembre dal Palestinian Center for Policy and Survey Research ha trovato che ben l’82 per cento dei palestinesi in Cisgiordania sostiene oggi la posizione di Hamas. Risultato: Israele sta ora producendo più possibili terroristi di quanti ne stia uccidendo.
A questo punto occorre porsi almeno due domande. La prima è: fino a quando e quali risultati bellici si otterranno se questo tipo di operazioni continueranno a lungo come annunciato? La seconda: anche supposto che gli obiettivi dichiarati di colpire tutte le capacità offensive di Hamas e sradicare quella organizzazione dal mondo palestinese riuscisse, cosa succederà dopo di Gaza?
È indispensabile anche capire cosa è successo negli ultimi anni, anche prima dell’atto terroristico del 7 Ottobre. Va notato che il numero di coloni israeliani che avevano occupato con la forza terre e villaggi palestinesi nei Territori nel 1977 (anno in cui salì al potere il Likud) era di circa 4mila individui, nel 1983 24mila, nel 1993 erano già saliti a 116.000. Attualmente, con l’incoraggiamento e la protezione dei governi di Netanyahu i coloni ebrei israeliani che vivono nei territori palestinesi sono più di 500mila mentre nella sola Gerusalemme Est sono arrivati a 230.000. Un totale, quindi, di più di settecentomila israeliani, abusivi secondo i dettami ONU, che costituiscono oggi un ostacolo enorme per la prospettiva dell’esistenza dei “due Stati”!
Se si vuole pensare al futuro di Israele e dei palestinesi a quando le ostilità finiranno è importante tenere in considerazione i fattori appena menzionati.
Noi europei non possiamo certo condividere il sogno di Hamas che Israele sparisca in quanto Stato dalla faccia della terra. Noi vogliamo che Israele continui a esistere, che tutti gli ebrei, se lo desiderano, possano viverci e prosperare e che ciò avvenga in modo pacifico e soddisfacente per loro così come per i palestinesi. Alcuni fanatici nazionalisti e religiosi ebrei pensano da tempo a una “grande Israele” che comprenda anche tutti i territori che vanno dal mare al Giordano ed è risaputo, dopo le dichiarazioni di qualche ministro in carica, che il desiderio di costoro è che il maggior numero possibile di palestinesi abbandoni i territori che abitano per trasferirsi verso altri stati arabi o altrove nel mondo. Sappiamo che esiste un cosiddetto “documento concettuale” preparato dal Ministero degli interni che propone la ”evacuazione della popolazione di Gaza nel Sinai e sia creata “una zona sterile di diversi chilometri all’interno dell’Egitto e non permetta più alla popolazione di tornare alle attività o alla residenza vicino al confine israeliano”. Purtroppo per questo assurdo desiderio, la maggior parte dei palestinesi non ha nessuna volontà di abbandonare i luoghi dove vive e nessun Paese arabo, per vari motivi (il Trattato di pace tra Israele e Giordania esclude esplicitamente per entrambi i Paesi la possibilità di trasferire in massa anche parte della popolazione dall’uno verso l’altro), ha oggi l’intenzione di assecondare tale soluzione. Immaginare, quindi, quella “grande Israele” abitata solo da ebrei, oltre a rappresentare l’emblema della più che deprecabile “pulizia etnica” condannabile da tutto il mondo, sarà impossibile a realizzarsi. La soluzione più vicina a questa malefica ipotesi è quella di una Israele più grande di quella attuale ove però possano convivere ebrei e palestinesi quali cittadini di uno stesso Stato. Malauguratamente, anche questa strada è politicamente oggi non percorribile. Innanzitutto i palestinesi che già oggi vivono nell’attuale Israele sono, di fatto, cittadini di serie B che non godono di tutti gli stessi diritti che possono vantare gli ebrei. È il risultato di una scellerata legge voluta da Netanyahu che ha stabilito Israele essere “uno Stato ebraico”, escludendo in pratica chi ebreo non è, anche se cittadino di Israele. Non è un caso che da più parti nel mondo (e almeno per alcuni aspetti) si facciano paralleli tra questa Israele e il Sud Africa dell’apartheid. Anche se quella legge fosse in seguito modificata, l’ipotesi di una coesistenza paritaria tra ebrei e palestinesi è malvista dalla maggioranza degli israeliani ebrei che, considerati i fattori demografici (in media ogni donna israeliana ha tre figli, ogni araba quattro) teme di perdere totalmente, col tempo, la propria identità culturale.
La continuazione della situazione di un Israele costantemente armata che occupa i Territori, come succede oggi, e controlli anche Gaza è ugualmente insostenibile poiché dopo il 7 ottobre e la dimensione della reazione delle forze armate israeliani (IDF) i rapporti tra i due popoli non potranno essere più gli stessi per lungo tempo. Immaginare un tale stato delle cose permanente nel tempo significherebbe dare per scontato il proliferare di attentati nel territorio metropolitano e di sempre più sanguinosi scontri locali tra i coloni e gli autoctoni derubati dalle loro terre.
È comprensibile dunque che gli americani preoccupati dalla situazione e dai suoi possibili sviluppi continuino a riproporre la soluzione dei “due stati”. Va ricordato che gli USA versano da sempre oltre tre miliardi di dollari annui in armamenti ad Israele e che il Congresso sta ancora valutando un supplemento straordinario di 14 miliardi di dollari. Washington ha quindi un certo potere su Tel Aviv, soprattutto considerando che Israele spende in questa guerra circa 280 milioni ogni giorno. Purtroppo la storia degli ultimi decenni ha dimostrato non solo il fallimento di tutte le negoziazioni intraprese fin qui per arrivare a quell’obiettivo ma anche che mancano, sia da una parte sia dall’altra, gli interlocutori credibili e capaci per incamminarsi su quella strada. Certamente non sono affidabili per quella direzione né Netanyahu né i partiti che sostengono la sua maggioranza. Se anche costoro dichiarassero di accettare l’ipotesi della creazione di uno Stato Palestinese a fianco di quello di Israele è ovvio che lo farebbero in malafede. La stessa malafede del capo politico di Hamas che recentemente ha dichiarato di essere “pronto a nuovi negoziati per una soluzione a due Stati con Gerusalemme Est quale capitale della Palestina”. Da parte palestinese è impossibile contare anche sull’attuale Autorità per intraprendere quel cammino. La leadership di Abu Mazen (Abu Abbas) e di chi lo circonda nei vertici politici è totalmente screditata agli occhi della stragrande maggioranza dei palestinesi e non è un caso che Blinken nel suo ultimo incontro a Ramallah abbia chiesto, e apparentemente ottenuto, che l’Autorità Palestinese rinnovi i suoi quadri dirigenti lasciando spazio a nuovi protagonisti più giovani e, almeno potenzialmente, più credibili. Se in Israele si tenessero oggi le elezioni il Likud perderebbe circa la metà dei suoi seggi alla Knesset e, se già ad aprile solo il 37% sosteneva il primo ministro, oggi questa cifra è scesa al 26 % ed è ancora in calo.
È ovvio di conseguenza che se davvero potesse esistere una concreta possibilità di voler percorrere oggi la strada di una coesistenza pacifica, il primo passo indispensabile sarebbe che l’Autorità Palestinese cambi drasticamente, magari con elezioni anche durante il conflitto e che il governo Netanyahu si dimetta lasciando spazio ad una maggioranza disponibile a una nuova strategia.
Questa strada, nessuno deve illudersi, non è affatto semplice ed è piena di ostacoli difficilmente superabili. L’ostacolo principale da parte israeliana è che un nuovo governo deve avere un grandissimo supporto popolare poiché, considerata la situazione geografica di Gaza e la presenza dei 700.000 coloni nei Territori, i confini del nuovo Israele dovranno essere ridiscussi drasticamente. Perché possa nascere uno Stato palestinese che non sia un nuovo Bandustan occorrerebbe dargli almeno una certa continuità territoriale (una soluzione come fu fatta con Berlino Ovest o l’exclave di Kaliningrad con la Russia?) e restituire gran parte dei territori attualmente occupati abusivamente dai coloni. La maggioranza in Israele a favore di una soluzione siffatta dovrà essere strabordante poiché, in nome della pace futura, potrebbe essere necessario anche usare la forza contro certi gruppi di estremisti religiosi e contro i coloni nazionalisti.
Da parte palestinese le cose non sono più facili. I miliziani armati di Hamas sono stati valutati essere almeno 30mila e il Ministero della Difesa israeliano dichiara di averne uccisi soltanto circa 5mila. Oltre, tuttavia, alla presenza di questi terroristi armati disseminati in varie zone e spesso mischiate con civili non combattenti, oggi Hamas rappresenta la forza politica più popolare tra i palestinesi e, in caso di nuove elezioni cui partecipasse, suoi esponenti potrebbero anche ottenere il consenso di una vasta maggioranza. L’unico modo per sconfiggere definitivamente Hamas è di creare un cuneo politico tra esso e il popolo palestinese. In aggiunta, avere Hamas come interlocutore per una negoziazione sulla creazione di due Stati costituirebbe una contraddizione in termini. Visto che non ha mai veramente rinunciato all’obiettivo di “cancellare” Israele, non si può fare alcun affidamento su una sua possibile buona fede. Inoltre, intraprendere oggi una negoziazione di quel tipo, per quanto destinata al nulla, sarebbe vantato da Hamas come la dimostrazione del proprio successo e che il terrorismo paga.
Occorre quindi qualcosa di nuovo e particolarmente coraggioso che, comunque, presupponga tre condizioni: il drastico cambio di governo a Tel Aviv, una leadership totalmente nuova nella Autorità Palestinese, e un ancora maggiore e importante ridimensionamento della forza militare di Hamas. Poco prima che Netanyahu risalisse al potere nel 2009, un sondaggio del Dahaf Institute aveva rilevato che il 78% degli Israeliani sarebbe stato disponibile ad accettare la soluzione dei “due Stati”. Nel settembre 2023 era ancora il 42% degli intervistati a sostenerlo.
Se le tre condizioni si verificassero (e il punto di domanda rimane) il nuovo governo israeliano, ancora prima che finiscano le ostilità formali, deve dichiarare unilateralmente, con l’avallo dell’ONU e degli altri membri del Quartetto del Medio Oriente (Onu, Stati Uniti, Russia, Unione Europea) di essere fortemente deciso ad accettare che nasca uno Stato Palestinese confinante. Dovrebbe annunciare che intende sviluppare un processo per raggiungere questo obiettivo entro un massimo di quattro/cinque anni. Nel durante, si negozierà sui confini e sulle modalità, ma con la supervisione e la garanzia di tutto il Quartetto. La ricostruzione di quanto distrutto e un aiuto verso una possibile integrazione delle economie dei due Stati potrebbe essere avviata grazie alla Banca Mondiale e al Fondo Monetario Internazionale. A favore di una soluzione di questo tipo, oltre agli USA e l’Europa, ci sarebbero tutti gli Stati arabi. Contro saranno l’Iran e i suoi “prossimi” in Yemen, Libano, Siria, Iraq e, naturalmente, lo stesso Hamas. Tutti costoro hanno solo da perdere da una pace duratura e concordata in Medio Oriente.
Ebrei e arabi non hanno altra scelta che coesistere poiché nessuno dei due popoli riuscirà mai a sbarazzarsi dell’altro. Tuttavia, se non si risolverà il problema del loro rapporto, la probabilità che nella zona continuino i conflitti e il terrorismo e si accresca l’instabilità regionale è l’unico futuro che avremo davanti.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.