di Guido Keller –
La giustizia statunitense dovrà aspettare ancora, dopo che l’Alta corte di Londra ha accolto l’istanza del giornalista e blogger australiano Julian Assange volta a ottenere un riesame al fine di scampare l’estradizione negli Usa. Il 52enne Assange, il cui vero nome è Julian Paul Hawkins, ha avuto una vita travagliata per aver diffuso nel 2010, attraverso l’organizzazione da lui co-fondata WikiLeaks, 700mila documenti secretati, ricevuti dalla ex militare Chelsea Manning, riguardanti le torture, gli abusi e i crimini di guerra compiuti da militari statunitensi durante la guerra in Iraq.
Rifugiatosi nell’ambasciata ecuadoriana di Londra per sfuggire agli arresti e alla conseguente estradizione, Assange rimase, protetto dall’allora presidente Rafael Correa Delgado, nell’edificio della rappresentanza diplomatica per sette anni, fino a quando nel 2017 il nuovo presidente dell’Ecuador Lenin Moreno gli sospese la cittadinanza e fece entrare nell’edificio gli agenti britannici per arrestarlo.
Da allora venne detenuto nel carcere di massima sicurezza londinese di Belmarsh, e si oppose alla decisione della Westminster Magistrates’ Court di Londra di estradarlo negli Usa.
Perso il primo grado, i suoi legali andarono in appello fino al caso di oggi, dove i giudici Victoria Sharp e Adam Johnson hanno fissato una nuova udienza per maggio ritenendo non infondati i timori della difesa per la vita del giornalista se estradato negli Usa.
La difesa di Assange si è sempre basata sulla libertà di espressione e sul fatto che gli Usa avessero messo in piedi una vera e propria “persecuzione” nei confronti della sua attività giornalistica, ovvero per aver divulgato l’indivulgabile in quei 700mila documenti che provavano i crimini di guerra di coloro che raccontavano di essere in Iraq per “portare pace e democrazia”. Negli Usa potrebbe essere condannato a 175 anni di carcere, se non alla pena capitale per cospirazione.
Candidato al Nobel per la Pace, è stato insignito di diversi premi tra cui il Premio Sam Adams, la Medaglia d’oro per la Pace con la Giustizia dalla Fondazione Sydney Peace e il Premio per il Giornalismo Martha Gellhorn.
A chiedere la sua liberazione diverse organizzazioni per i diritti civili ed esponenti della società civile di diversi Paesi europei, ma anche il Consiglio d’Europa e il relatore Onu sulla tortura Nils Melzer.