Geoeconomia, Covid-19 e democrazia

di Massimo Ortolani

Mentre i funzionari dell’organizzazione Mondiale della Sanità stanno ancora investigando a Wuhan, nell’intento di fare luce sulle origini della pandemia, le statistiche del FMI sull’incremento del Pil cinese ne confermano l’incremento annuale nel 2020 ad oltre il 2%, con una proiezione al 2021 pari all’8,1% e al 5,6 per il 2022. E’ già stato sottolineato che tale sprint, sempre in positivo, supera di molto quello medio delle economie dell’area Euro (-7,2 nel 2020 e +4,2 stimato per il 2021 e +3,6 nel 2022), così come anche i valori statunitensi: -3,4% 2020, +5,1% nel 2021, +2,5 nel 2022. Anche se a livello mondiale la maggiore performance di ripresa stimata dal FMI è quella dell’India: prevista passare da -8% a 11,5% nel 2021, e a +6,8% 2022. In termini di capacità di recupero delle economie nazionali agli effetti del Covid emergerebbe a grandi linee che regimi poco (o non) liberali consentirebbero riprese economiche più accelerate in termini comparativi.
Per quanto concerne la nazione più grande al mondo, la Russia, l’impatto pandemico risulta essere stato più modesto (-3,6% nel 2020), con previsione di un quasi pari recupero nel 2021 (+3%) e +3,9% nel 2022. Ma la Russia, così come la Cina, possiedono propri vaccini nazionali già in fase di somministrazione da mesi. Oltre a godere di maggiore spazio fiscale nel ricorso alla dinamica degli investimenti statali, in quanto il loro rapporto debito-pubblico/Pil si attesta appena sopra al 60% per la Mosca e al 46% per Pechino. A ciò si aggiungano i vantaggi derivanti – sul piano geo-economico – dall’export dei loro vaccini, e non solo ai paesi della via della seta o dell’ex Unione Sovietica, tanto che la stessa Ue sta pensando di sottoporre ad autorizzazione lo Sputnik V russo. Per quanto riguarda la Cina in particolare, Pechino aveva d’altra parte già dato prova dei notevoli gradi di libertà operativa disponibili al suo regime politico nell’isolare per lockdown intere province, abitate da una popolazione per numerosità paragonabile a quella italiana. Una ulteriore circostanza che lascia intuire come azioni di politica antipandemica trovino giustificazione, od ostacoli, di natura sociale e comportamentale nel sistema dei valori cui sono informate le costituzioni dei singoli paesi ed i loro regimi politici.
Da questo punto di vista, e stando alle risultanze del Global Democracy Index dell’Economist Intelligence Unit, che classifica i paesi in quattro categorie: dalle democrazie liberali, a quelle imperfette, ai regimi ibridi ed a quelli autoritari, emerge come l’impatto psicologico sugli elettori connesso al Covid abbia in generale contribuito a rendere accettabili restrizioni della libertà individuale anche con crescente graduazione. Come segnalato da EIU infatti, di fronte ad una malattia anche non fortemente mortale ma verso la quale gli esseri umani non dispongono di una immunità naturale, la maggior parte delle persone ha concluso che prevenire una perdita catastrofica di vite giustificava una perdita temporanea della libertà.
Tuttavia le conclusioni della ricerca servono anche e soprattutto ad evidenziare, su questo tema, come a fronte dei risultati della Cina, si pongono quelli di altri paesi a regimi autoritari che non sono riusciti a generare sufficienti successi nella lotta alla pandemia, in linea con lo spazio di restrizioni ad essi consentito. Infatti per valutare le capacità di difesa e recupero economico in una nazione, l’esperienza insegna che interviene una combinazione di fattori quali oculatezza nel distanziamento sociale, velocità di ottenimento dei vaccini e soprattutto capacità di organizzazione ottimale delle modalità di restrizione/somministrazione. Come si è potuto osservare nei casi eclatanti di Taiwan, Corea del Sud, Uk ed Israele. Oltre ad un uso capillare dell’intelligenza artificiale e dell’intelligence economica per identificare le forme di aiuto fiscale più efficace alle imprese ed agli individui vittime della crisi economica.
Queste problematiche inevitabilmente mettono in rilievo il ruolo sino ad oggi ancora insufficiente esplicato dalla Ue. Dato che già in sede di finalizzazione dell’accordo sulla Brexit, alla fine dello scorso anno ed in piena seconda ondata della pandemia, la Commissione avrebbe potuto/dovuto idoneamente e precisamente definire i termini delle suddivisioni delle forniture dei vaccini con la Gran Bretagna in caso di produzione situate, come già si sapeva, nel territorio di una delle controparti, senza affidarsi esclusivamente alla speranza dei “migliori sforzi” produttivi annunciati come realizzabili nello stabilimento inglese (1), La Von der Leyen è poi intervenuta in extremis, istituendo il meccanismo di geopolitica unionale di autorizzazione all’export, in base al quale le aziende dovranno dire cosa hanno portato fuori dall’Unione da dicembre a oggi.
Ma dalla geopolitica delle norme si dovrebbe poi passare alla geoeconomia delle scelte di politica industriale europea, per conferire alla UeE una autonomia strategica in campo vaccinale, con produzioni localizzate nel territorio unionale.
Anche se il grande salto di qualità in termini di sovranità nelle politiche economiche comunitarie la Commissione lo ha fatto con il programma Ng Eu. Il Recovery Plan infatt, consentirà un sollievo alle dolorose implicazioni sociali del Covid, in particolare quale supporto intertemporale all’occupazione, a rischio di seguire con ritardo il profilo di recupero previsto per il Pil nei prossimi anni. Nel nostro paese, secondo l’Istat, nel 2020 è diminuito dell’8,8%, con una contrazione che non si vedeva dai tempi dell’ultima guerra. E del quale il Fmi ne stima la ripresa a +3% nel 2021 e +3,6% nel 2022. Chi ha una opinione politica limitata alla concezione del ruolo della Ue come propulsore degli interessi nazionali dei pochi e maggiori stati membri continua naturalmente a considerare frutto della realpolitik anche la nascita di Ng Eu. Ma, in tal modo, non si riesce neppure a tener conto dei benefici prospettici che il Recovery Plan può generare in termini di curva di apprendimento per i programmi futuri che policy maker nazionali ed europei potranno realizzare sulla base di tale esperienza.
Questa linea interpretativa di realpolitik, incentrata sul formalismo contrattuale e su di una temporalmente oculata coniugazione di agire politico e di agire mediatico, più che ad altre nazioni viene generalmente associata a taluni atteggiamenti dei politici tedeschi, prioritariamente finalizzati al perseguimento dell’interesse nazionale e della stabilità economica. E, però, merita sottolineare che, proprio perché il commercio è sempre di più strumento politico, negli accordi commerciali e sugli investimenti la Ue sta da tempo difendendo non solo i principi di reciprocità di trattamento e di parità di accesso al mercato, ma anche il rispetto di regole sociali e ambientali che toccano nel profondo l’ambito lavorativo. Tanto che nell’intesa tra Cina e Ue la Commissione si è impegnata a richiedere a Pechino la ratifica di due convenzioni (n. 29 e 105) della Organizzazione Internazionale del Lavoro. Il legame tra diritti umani e lavoro forzato infatti è chiaramente visibile nell’utilizzo di tale modalità lavorativa quale strumento di coercizione o di educazione politica per chi esprime opinioni avverse agli indirizzi politici governativi.
Ma trattasi di una confrontazione su principi che deve ora cimentarsi anche con la sofisticazione interpretativa adottata da Xi Jinping. Nel suo intervento a Davos infatti, rifiutando l’atteggiamento diplomaticamente naive di chi invocherebbe la non ingerenza, ha invece invocato il ritorno al multilateralismo, però nel rispetto delle reciproche diversità che faranno sì, come dichiarato, che non “potremo mai essere eguali”. Si dovrà trattare allora di una confrontazione tra sistemi politici statuali che, in quanto espressione dei valori fondativi evolutisi storicamente in direzioni diverse, possono essere addirittura assimilati, come autorevolmente osservato, a due diversi Stati-civiltà. Questa oscillante impressione di apparente inadeguatezza istituzionale della Ue viene alimentata al suo interno anche dal comportamento di stati di piccola dimensione che si comportano da free riders non intenzionati ad attenersi alle regole. Come l’Ungheria, dove Orban ha deciso di rifornirsi del vaccino cinese, pur se non ancora non approvato dall’Ema; dopo aver deciso di abbandonare l’acquisto dello Sputnik russo, anch’esso ancora non distribuibile nella Ue, per le modalità di approvvigionamento temporalmente troppo dilatate. Ma, a parte questo, chi può sin d’ora garantire che la fornitura dello Sputnik non diventi oggetto, in futuro, di un trade-off geopolitico con le sanzioni Ue verso la Russia?
E’ in ogni caso statisticamente appurato che la geopolitica dei dazi e delle limitazioni all’export ai tempi del Covid abbia contribuito ad attribuire valenza strategica a tutta una serie di prodotti medicali, da tutelare sulla base di comprensibili priorità concernenti il fabbisogno nazionale, e del perseguimento dell’interesse nazionale. Anche se, dal punto di vista delle scelte di intelligence economica ad impatto geostrategico (G8 e G20) sarà comunque necessario consentire anche ai paesi poveri di potersi approvvigionare dei vaccini necessari a raggiungere l’immunità di gregge nel più breve tempo possibile, onde evitare fenomeni di ricontaminazione da virus nel frattempo mutanti e mutati, come l’esperienza di questi giorni insegna.
Anche al di fuori dell’ambito medicale e sanitario gli effetti della pandemia sul commercio internazionale sono stati comunque tali da richiedere azioni di intelligence economica che, per accelerare la ripresa, portino ad una revisione delle barriere tariffarie e non, come nel caso della recente strategia americana del Buy American, ovvero a consentire da parte degli Usa la ripresa dell’operatività della Corte d’Appello presso l’Organizzazione Mondiale del Commercio.
Anche se Biden ha già richiesto di smussare gli effetti controversi di talune estremizzazioni delle guerre commerciali, ha comunque iniziato a rimodellare lo schema di dazi e restrizioni lasciatogli in eredità da Trump. Ha ad esempio reintrodotto la tariffa dei dazi al 10% sull’import di alluminio dagli Emirati Arabi, che Trump aveva loro concesso l’ultimo giorno della sua presidenza, a motivo del ristabilimento delle loro relazioni diplomatiche con Israele.
In tema invece di limitazioni all’export tecnologico statunitense verso la Cina, poiché l’atteggiamento anti-cinese ha ormai permeato profondamente tutti i segmenti influenti della politica statunitense, Biden potrebbe essere tentato di continuare in una escalation che associ al conflitto commerciale anche il conflitto di valori. Un conflitto questo pressocchè impossibile da ricomporsi sulla base di accordi diplomatici di una qualche natura, data anche la crescente pervasività della polarizzazione dell’elettorato americano, non più spiegata dalle sirene populiste della recessione da globalizzazione, e con effetti collaterali sul piano geoeconomico verso paesi alleati che potrebbero prolungarsi per i prossimi anni.

Note:
1 – Come indicato a pag 80 del libro dello scrivente uscito all’inizio dello scorso anno: “Intelligence economica e conflitto geoeconomico” Ed. goWare.