Geopolitica dello spreco. La gabbia di acciaio è diventata di plastica?

di Giorgio Buro –

In un periodo storico dove gli avvenimenti si consumano e si accavallano prima ancora di essere metabolizzati, esistono delle correnti di pensiero che sopravvivono alla prova del tempo e che di tanto in tanto riaffiorano in superficie, manifestando una straordinaria capacità di adattamento al contesto: chiedere a Max Weber per credere.
A distanza di più di un secolo dalla scomparsa del celebre sociologo tedesco, la strada tracciata dai suoi studi è ancora percorsa da innumerevoli gambe e dimostra una solidità invidiabile.
Forse si tratta di fortuna, o più probabilmente tutto questo ha a che fare con una capacità di analisi fuori dal comune; quel che è certo è che le metafore che durano sono quelle che continuano a risvegliare qualcosa nella coscienza comune.
La prima che viene in mente citando Weber è quella della “gabbia d’acciaio”, immagine vivida con cui lo scienziato sociale intendeva descrivere il processo di razionalizzazione e burocratizzazione che, nel primo Novecento, iniziava a prendere forma in seno all’occidente capitalista e che, in una certa misura, tendeva a “intrappolare” l’individuo in una struttura (la gabbia, appunto) così rigida da risultare intollerabile. Un processo profondo, quello della razionalizzazione, a tal punto da coinvolgere indistintamente tutti i sistemi, gli ordinamenti giuridici e le strutture sociali proprie del nostro tempo.
Cento anni dopo, i fenomeni che Weber aveva intercettato si sono fatti più manifesti, e nella loro pervasività hanno condotto l’umanità a confrontarsi con le conseguenze delle proprie azioni. L’esigenza di progredire a ogni costo, una razionalità quasi irrazionale, ha guidato le nostre scelte verso zone d’ombra che adesso minacciano la nostra stessa sopravvivenza.
Se l’acciaio era la cifra esistenziale del Novecento, oggi potremmo infatti dire – forzando un po’ la metafora – che la gabbia è ormai un robusto composto di polimeri. Plastica.
Dal 1907, anno in cui è apparso il primo prodotto costituito da plastica interamente sintetica, il materiale è divenuto parte integrante della nostra esistenza, una presenza fissa nella quasi totalità degli articoli che possediamo e che ci circondano.
Ma qual è il costo occulto di questa ubiquità?
Andando a scorrere i dati più recenti a disposizione, si scopre che il genere umano produce circa 400 milioni di tonnellate di scarto plastico all’anno, e che il 60 per cento di questa mole finisce in dispersione nell’ambiente naturale o in discarica.
I rifiuti di questo tipo, secondo le stime, coprono il 40 per cento delle superfici oceaniche: entro il 2030 ci saranno più residui plastici che pesci.
Inutile specificare che la diretta conseguenza di questi numeri ci colpisce in prima persona, dal momento che un terzo del pescato per consumo alimentare contiene plastica al proprio interno.
C’è un filo rosso che unisce tutti questi dati: è la geopolitica a dettare i ritmi dello spreco.
La pandemia, le guerre in Europa e in Medio Oriente, i sanguinosi scontri per il controllo dei minerali di conflitto: sono tutti eventi che hanno esasperato la pressione sull’economia globale, mettendo in serio pericolo quella famigerata transizione ecologica che da anni è sulla bocca di tutti ma che poi, a conti fatti, è quasi impossibile da attuare in maniera compiuta.
Il mercato è costretto ad assecondare i ritmi dettati dai giganti dell’industria petrolchimica, la cui produzione si affaccia oggi sui segmenti ancora poco esplorati dell’Asia e dell’Africa; finché non emergerà un materiale ecosostenibile con analoghe caratteristiche di versatilità, resistenza ed economicità, il pianeta sarà ostaggio di questo cortocircuito.
Viene allora da chiedersi cosa avrebbe detto un Max Weber contemporaneo, constatando che anche questa gabbia, a modo suo, ha la fastidiosa tendenza a strangolare gli individui. Per davvero, stavolta.