I grandi marchi sulle spalle dei lavoratori sfruttati

Dopo cinque anni un’inchiesta giornalistica conferma che non è cambiato nulla.

di C. Alessandro Mauceri

Cinque anni fa un’inchiesta condotta da alcuni giornalisti mise in luce il lato oscuro dell’industria del tessile e dell’abbigliamento: decine di aziende vendevano sui mercati europei e americani milioni di capi realizzati grazie allo sfruttamento dei lavoratori e a condizioni salariali bassissime.
Sono passati cinque anni e per valutare i cambiamenti gli stessi autori hanno ripetuto le loro ricerche. I risultati sono stati riportati in un rapporto da titolo “Tailored Wages 2019: The state of pay in the global garment industry” (Salari su misura 2019: Lo stato delle retribuzioni nell’industria globale dell’abbigliamento), pubblicato dalla Clean Clothes Campaign.
Le cosa più sorprendente è che, nonostante lo scandalo e il polverone sollevato con la prima inchiesta, la situazione non è migliorata. Anzi.“A cinque anni dalla nostra precedente indagine, nessun marchio è stato in grado di mostrare alcun progresso rispetto ai salari. La povertà nel settore dell’abbigliamento anziché migliorare sta peggiorando. La questione è urgente. Il nostro messaggio ai marchi è che i diritti umani non possono più aspettare e i lavoratori che fanno i vestiti venduti nei nostri negozi devono essere pagati abbastanza da poter vivere con dignità”, ha dichiarato Anna Bryher, autrice del rapporto.
I capi venduti sui mercati occidentali molto spesso vengono in paesi dove diritti sindacali, salari minimi e tutela dei lavoratori sono delle chimere. Paesi dove i lavoratori non hanno modo di far valere i propri diritti e l’unica scelta che hanno è sottostare ai soprusi dei datori di lavoro o scappare.
Tra i tanti problemi, emerge quello legato ai salari per i lavoratori che fanno parte della filiera produttiva: l’85% dei marchi ha dichiarato di impegnarsi a garantire salari minimi ai lavoratori, ma nessuna delle aziende intervistate ha saputo dimostrare di aver condotto controlli efficaci! Di fatto, i marchi oggetto dell’inchiesta giornalistica non sono riusciti a garantire che i lavoratori ricevessero compensi adeguati e sufficienti a garantire una vita dignitosa. Anzi, pare che sia proprio il contrario.
In Bangladesh, ad esempio, dove il salario minimo è meno di un quarto del salario che consente la sussistenza. O in Etiopia, dove la situazione è simile. E perfino all’interno dei confini dell’Unione Europea: in Romania e in altri paesi dell’Europa orientale gli stipendi sono inferiori al salario di sussistenza. Per questo motivo i lavoratori sono costretti a vivere in quartieri poveri, spesso soffrono di denutrizione e sono coperti di debiti. A volte non sono nemmeno in grado di mandare i propri figli a scuola, nonostante turni massacranti per gli straordinari solo per cercare di far quadrare i conti.
Un operaio rumeno ha dichiarato che “Se ci fosse un altro datore di lavoro in questa regione, che paga anche un po’ di più degli altri, tutti lascerebbero la fabbrica. Tutti. Ma la nostra è l’unica. Che ne sarà di noi? Cos’altro potremmo fare? Questa è una regione disperata. L’unica altra opzione per sopravvivere sarebbe rubare. Vogliamo guadagnare soldi onestamente. Quindi dobbiamo rimanere in questo fabbrica”. Un suo collega ha aggiunto che “Vorrei invitare i proprietari di qualsiasi marchio che abbiano i loro capi assemblati nella nostra fabbrica per provare a sostenere le loro famiglie con i nostri stipendi, per un solo mese”.
Solo in rarissimi casi i lavoratori sono riusciti a far rispettare, almeno in parte, i propri diritti sindacali: i sindacati di Tiruppur, nel Tamil Nadu, in India, hanno recentemente firmato un accordo con gli esportatori tessili, un successo che però non deve ingannare gli analisti dato che il salario minimo per i lavoratori dell’abbigliamento a Tirupur non era ricalcolato dal lontano 2004 e che i lavoratori hanno dimostrato che, a causa del prezzo inflazione, era impossibile vivere con salari minimi.
“È un dato di fatto che i lavoratori che producono quasi tutti gli abiti che compriamo vivono in povertà, mentre le grandi marche si arricchiscono grazie al loro lavoro. È tempo che i marchi adottino misure efficaci di contrasto al sistema di sfruttamento che hanno creato e da cui traggono profitto”, ha dichiarato Debora Lucchetti, della sezione italiana Clean Clothes Campaign.
Il giudizio finale dei ricercatori è impietoso: delle 20 aziende intervistate (che comprendono marchi famosi e blasonati come Adidas, Fruit of the Loom, Gap, H&M, Hugo Boss, Levi’s, Nike e molti altri), ben 19 hanno ricevuto il voto più basso nel rapporto. In altre parole, quasi nessuna delle aziende è in grado di sapere con certezza se i lavoratori che hanno prodotto i capi d’abbigliamento con il loro marchio hanno ricevuto un salario decente. Unica eccezione (almeno parziale) Gucci, che è stata in grado di dimostrare, ma solo per una piccola parte della sua produzione in Italia, che i negoziati sui salari nazionali indicano che una famiglia può vivere con un salario pagato in alcune aree nelle regioni meridionali e centrali.
“Il modello economico globale che spinge verso il basso i prezzi e contrappone paese a bassi salari è troppo forte”, ha dichiarato Neva Nahtigal dell’ufficio internazionale Clean Clothes Campaign, “È tempo che i marchi siano ritenuti responsabili per il sistema di sfruttamento che hanno creato e da cui traggono profitto”.
Il risultato che emerge dal rapporto è che in un mercato globale dove comanda il margine di profitto e dove la concorrenza è sfrenata, le condizioni di lavoro e la qualità della vita degli operai non importano a nessuno. La possibilità, grazie agli accordi di libero scambio, di produrre certi beni in paesi dove quasi non esistono limiti salariali e diritti dei lavoratori, consente alle imprese di spostarsi e delegare ad imprese locali la produzione di semilavorati. Unico interesse la qualità e la quantità dei prodotti. Per il resto, per le multinazionali, per i marchi blasonati, è meglio far finta di non sapere chi e in quali condizioni saranno realizzati questi prodotti.
Lo stesso vale per i consumatori dei paesi “sviluppati”, lontani migliaia di chilometri da quelle fabbriche. Anche loro preferiscono fingere di non sapere quali sono le condizioni di lavoro di milioni di persone che producono i capi d’abbigliamento venduti sui mercati europei e americani. Fa comodo fingere di non sapere che, nonostante turni di lavoro massacranti, il loro salario è ben al di sotto del minimo necessario per sopravvivere e che le condizioni di lavoro non sono affatto sicure.
Agli acquirenti finali interessa solo acquistare quel vestito o quel paio di scarpe magari proprio grazie al fatto che costa abbastanza poco da poterlo avere, per poter “essere alla moda”. Senza pensare che, quello che sta “tornando di moda”, nel mondo, è una nuova forma di schiavitù.